La Chiesa occidentale adottò il pensiero di Agostino. Soprattutto nel Medio evo si tese ad accentuare l’onnipotenza della «grazia» rispetto al volere umano.
Nel ‘500 la questione fu posta nuovamente in discussione.
Lutero e Calvino, nonostante la loro carica riformatrice, negarono il libero arbitrio e affermarono la più rigorosa necessitazione del volere umano da parte della «grazia».
Nel ‘600 Spinoza ripristinò il concetto stoico dell’universale necessità e fece consistere la libertà nella conoscenza e nella accettazione della necessità universale.
Ma il ‘600 è anche il secolo in cui la libertà cominciò a farsi strada, in teoria e nella pratica. Si pensi a Locke, il quale, in polemica con il conterraneo Filmer che affermava che gli uomini sono nati schiavi e devono restare tali, sostenne che l’uomo al contrario è nato libero e vive per godere di una libertà completa.
Nel ‘700 altri grandi pensatori riaffermarono il valore della libertà umana. Tra i primi Voltaire: «non tutti i cittadini possono essere ugualmente potenti, ma tutti possono essere ugualmente liberi»; poi Kant: l’essenza profonda del nostro essere è la libertà, e all’origine dell’intero universo sta il libero volere di un Essere intelligente. Fichte riprese da Kant il concetto di libertà come autonomia morale dell’uomo difendendo nel contempo, nei famosi “Discorsi alla Nazione tedesca”, la libertà nazionale della sua Patria contro le invasioni napoleoniche. Rousseau aveva affermato che è obbedendo alle leggi che l’uomo conquista la sua libertà: «Un popolo libero obbedisce, ma non serve; ha dei capi ma non dei padroni; obbedisce alle leggi, ma non obbedisce che alle leggi». Per Hegel, ancora più che per Rousseau, la libertà si realizza nello Stato.
Nella 2ª metà ‘800, contro il determinismo positivistico, insorsero tutte le filosofie del «ritorno a Kant», intese a salvare la libertà della condotta morale. Secondo altre correnti di pensiero contemporanee (come il contingentismo) la libertà è piuttosto indeterminazione che autodeterminazione, è spontaneismo, così come anche per la filosofia bergosoniana dello «slancio vitale». Nell’odierno esistenzialismo, poi, si passa da una concezione della libertà come scelta e impegno gratuiti, senza motivi o ragioni, a quella della libertà come scelta della situazione predeterminata (accettazione del fatto) e infine ad una concezione teologica che, ponendo l’uomo come essere essenzialmente peccatore, gli attribuisce la libertà quale dono assolutamente gratuito della grazia divina.
(continua)
Dedicato a
FATHI BEN SALEM
IL NAUFRAGO
II
- Chi è? Non so. Chi sei? Che fai? Più nulla.
Dorme? Non so. Sì: non si muove. E il mare
perennemente avanti lui si culla.
Noi gli occhi aperti ti baciamo ignare.
Che guardi? Il vento ti spezzò la nave?
Il vento vano che, sì, è, né pare?
E tu chi sei? Noi, quasi miti schiave,
moviamo insieme, noi moriamo insieme
costì con un rammarichìo soave...
Siamo onde, onda che canta, onda che geme...
III
Tu guardi triste. E dunque tua forse era
la voce che parea maledicesse
nell'alta notte in mezzo alla bufera!
Noi siamo onde superbe, onde sommesse.
Onde, e non più. L'acqua del mare è tanta!
Siamo in un attimo, e non mai le stesse.
Ora io son quella che già là s'è franta.
E io già quella ch'ora là si frange.
L'onda che geme ora è lassù, che canta;
l'onda che ride, ai piedi tuoi già piange.
[…]
Giovanni Pascoli
Nuovi poemetti - 1909
OSSERVATORIO LINGUISTICO
Rubrica aperta ai contributi di tutti gli interessati
Traduzione: sì all’equivalenza
di Giancarlo Marchesini
Spero, con il precedente articolo, di aver convinto i miei lettori che l’unico criterio valido in traduzione letteraria è quello dell’equivalenza e non quello dell’identità. Ma subito sorge la domanda quale equivalenza? Perché l’equivalenza resta un dato soggettivo e quindi la “mia equivalenza” può essere diversa dall’equivalenza di altri. Esiste un’equivalenza universale?
Un tradimento consapevole
Il “tradimento” del traduttore deriva dalla constatazione che un termine, nell’accezione che ha nella lingua straniera, non copre esattamente lo stesso significato che ha nella lingua di arrivo. In inglese ad esempio non esiste una parola che abbia tutte le connotazioni del nostro termine angoscia: anguish significa piuttosto tormento, angustia e distress sofferenza, pena. Ciò non significa che i parlanti inglese non siano soggetti a crisi di angoscia ma piuttosto che la loro lingua suddivide la realtà in modo diverso dalla nostra. La famosa angoscia di Kierkegaard venne espressa dal grande filosofo con il termine danese angest che, significa terrore. E gli inglesi hanno tradotto questo termine con anxiety (invece di dread) che, almeno per uno psichiatra, copre anche il nostro significato di angoscia. I francesi distinguono fra fleuve, un fiume che si getta nel mare, e rivière, un fiume che si getta in un altro fiume. Per quanto un esperto di idrografia usi la distinzione fra fiume (fleuve) e tributario (rivière) tutti questi corsi d’acqua sono per noi essenzialmente fiumi salvo i casi in cui la distinzione assuma un valore figurativo come in Marzo 1821 di Manzoni (Chi potrà della gemina Dora, della Bormida al Tanaro sposa, del Ticino e dell’Orba selvosa scerner l’onde confuse nel Po?).
Italiano standard e dialetti
I nostri dialetti fanno una distinzione fra topo e ratto (ad es. pantegana, pundgaza) ma in italiano standard topo si riferisce indistintamente ai due generi (cui appartengono diverse specie e sottospecie). How now a rat! di Amleto diventa “Un topo, un topo!”. La fata di Cenerentola ottiene lacchè da topini e cavalli da “toponi”. Ma scendendo sul piano scientifico, nella traduzione de La peste di Camus, sarà necessario parlare di ratti perché sono questi roditori e non i topi i portatori della piaga. Da questi pochi esempi risulta l’impossibilità di far corrispondere tutti i significati di una parola in una data lingua a tutti i significati di una parola in un’altra (i linguisti parlano di anisomorfismo). E questa impossibilità comporta necessariamente una perdita di senso. Il traduttore dovrà decidere a quale livello la perdita sarà meno rilevante: significato, stile, contesto, registro, implicazioni.
Anche i grandi possono sbagliare
Il compianto Umberto Eco ha parlato di “negoziazione” nel senso che il traduttore intavola una trattativa con se stesso per comprendere quale aspetto del testo da tradurre vada privilegiato e quale sottaciuto. Traducendo Sylvie di Nerval Eco parla di “casupole in pietra” per esprimere il francese chaumières e tralascia la radice chaume che indica un tetto di paglia. Francamente non mi sembra una soluzione felice o, quanto meno, rispettosa del testo. Lo stesso Eco d’altra parte incoraggia il traduttore a “tradire”: nel romanzo L’isola del giorno dopo si trova la descrizione di una barriera corallina in cui vengono presentati un’infinità di colori e sfumature. Eco raccomanda ai suoi traduttori: “Se ad esempio, nella vostra lingua, il verde non presenta altrettante sfumature che in italiano, cambiate pure colore pur di salvaguardare la quantità delle sfumature.
Un compito ingrato
Come si vede quello del traduttore è un compito ingrato che si dipana tra dubbi e lacerazioni, certezze e ripensamenti Ma c’è anche il rovescio della medaglia. Nella Francia del ‘700 si affermò una concezione della traduzione denominata Les belles infideles. Si trattava di traduzioni che giungevano a stravolgere il testo originale in nome di un principio di eleganza e di vicinanza alla cultura francese. E i francesi se ne facevano un vanto. Avevano ragione? Cos’è la fedeltà in traduzione? Affronteremo questa tematica nel prossimo articolo
(continua)
La lunga strada dell’emancipazione femminile
attraverso le due guerre mondiali del ‘900 / 3ª parte
di Francesco Bonanni
Anche in campo sanitario il contributo femminile risultò particolarmente rilevante. Prestarono un prezioso servizio sia sui Treni-Ospedali che nei Posti di Soccorso delle Stazioni Ferroviarie ove si occuparono dell’assistenza ai soldati di passaggio e ai profughi e del trasbordo dei feriti provenienti dalla linea di fuoco. Addirittura operarono anche in zona di guerra ove furono impiegate sia negli Ospedaletti da Campo che negli Ospedali di Tappa e nelle Ambulanze Chirurgiche. Ma all’inizio in tali impieghi, a causa dei radicati pregiudizi maschili, incontrarono spesso una certa diffidenza se non addirittura un’aperta ostilità da parte del personale maschile. Inizialmente, infatti, gli Ufficiali Medici, non abituati ad una tale massiccia presenza femminile nei vari Presidi Sanitari, in numerosi casi impedirono alle Infermiere di entrare nelle Sale Operatorie e le relegarono nelle attività più umili e meno qualificate, quale ad esempio quella della lavatura dei pavimenti.
Crocerossine Volontarie
Solo in seguito, sia a causa delle necessità contingenti che al superamento, per loro, della dirompente novità, i Medici Militari cominciarono in breve tempo ad apprezzare il contributo del Personale Femminile impiegandolo nelle giuste mansioni. La maggior parte di queste giovani donne, divenute Crocerossine Volontarie, provenivano sia dalla piccola ma soprattutto dalla media e dall’alta Borghesia. Nel duro, frenetico, caotico e spartano impegno ospedaliero si dedicarono con grande entusiasmo e altrettanto spirito di sacrificio, rinunciando agli agi ed alle comodità alle quali molte di loro erano abituate. Furono questi anni di profondi cambiamenti. Le Volontarie tornarono a casa visibilmente trasformate al punto tale da essere a stento riconosciute dai propri genitori. Difatti la Grande Guerra risultò la “Guerra dell’innocenza perduta”. A testimonianza di ciò esiste un’ampia documentazione fornita dalle lettere inviate dal fronte da queste Volontarie alle proprie famiglie.
Donne laureate in medicina
Nella Sanità Militare non ci sono solo Infermiere ma anche uno sparuto manipolo di donne Medico. Erano 45 Ufficiali Medici a pieno titolo che alla fine della guerra verranno prontamente smobilitate. Bisognerà aspettare la Legge Delega n°380 del 1999 per consentire alle donne di poter partecipare allo arruolamento su base volontaria nei vari Corpi delle Forze Armate. Molte donne, inoltre, su iniziativa di una Imprenditrice, la Nobildonna Lina Bianconcini Cavazzi, furono impiegate in varie attività di assistenza ai Combattenti. Tale iniziativa si articolava in varie attività: dal fornire informazioni ai familiari dei Militari, all’espletamento delle pratiche relative alle Pensioni di Guerra, al provvedere all’invio alle proprie famiglie degli effetti personali dei caduti, all’assistenza agli analfabeti ed infine a provvedere a comunicare le notizie riguardanti i Prigionieri.
Le Portatrici Carniche
In ultimo, da non dimenticare, la coraggiosa e preziosa attività svolta dalle intrepidi Portatrici Carniche. Si tratta di donne dai 15 ai 60 anni che, sul Fronte della Carnia, trasportavano con le loro gerle rifornimenti alimentari e munizioni sino alle prime linee. Indossavano un bracciale rosso sul quale era stampigliato il numero del Reparto dal quale dipendevano. Percorrevano più di 1.000 metri di dislivello portando sulle spalle gerle di 30-40 kili, a rischio della propria vita. A ricordo di queste eroine a Sabaudia si trova il monumento dedicato alla Portatrice Medaglia d’oro al Valor Militare Maria Mentil Plozner, colpita da un Cecchino il 15 febbraio 1916.