La precisazione dell’ex sindaco Carlo Conte su Abruzzese
Non infangate Mario
Invio notizia dell’inaugurazione della nuova targa per Mario Abruzzese a Nettuno, il signor Sulpizi contrario all’iniziativa per motivi, a suo dire, storici. continua ad infangare la memoria di Mario. Sono convinto che, purtroppo, l’ideologia faccia velo alla capacità di giudizio, nel merito, della vicenda umana di Abruzzese.
Credo sia stato soprattutto il messaggio inviatoci dallo storico Alessandro Barbero a determinare certe reazioni. Quando egli pone la domanda retorica:... “ma davvero tu vorresti vivere in un’Europa in cui avessero vinto Hitler e Mussolini? e dove fossero rimasti accesi i forni crematori”.
Ed in quei tempi di ferro e sangue, fare la scelta giusta non era facile. Lui la fece! A noi è piaciuto soprattutto il suo coraggio, quello di collocarsi, da subito, dove si rischiava di più: dalla parte della libertà e della giustizia, contro coloro che avevano trascinato l’Italia nell’immane tragedia della dittatura e della guerra. Così avrebbero fatto i partigiani caduti nella Resistenza, i martiri di Cefalonia trucidati dai nazisti e i tanti che, rifiutando di schierarsi con Hitler, preferirono i lager tedeschi .
Tornando al merito riferisco quello che ho letto: che il capo partigiano Petralia, non poteva esse nel gennaio del ‘45 a giustiziare le spie, perché gravemente ferito ad un braccio e ospite della famiglia Dagotto, lontano da Luserna. Ho provato a verificare presso l’Anpi di Cuneo e all’Istituto storico Resistenza, non sono riuscito ancora ad ottenere risposta. A me basta sapere però che al momento dei funerali, di Abruzzese, nella Chiesa di San Giovanni, nel 1972, era presente l’ANPI nazionale e lo Stato, col ministro Giolitti, un onore per la città di Nettuno. Ricordo infine che, a Romanino, in Piemonte, è stata dedicata una tappa, la 14esima, del percorso partigiano che va da Alpette a Sanpeyre, in provincia di Cuneo. Un nettunese che si è distinto in un momento tremendo per l’Italia e che ha combattuto per la libertà, restituendo dignità ad un paese distrutto dal fascismo. Ma i conti col ventennio fascista sono già stati fatti dalla Storia.
Per maggiori informazioni: M. Diena, “Resistenza ed autogoverno” e V. Modica: “Dalla Sicilia al Piemonte”.
Carlo Conte
La lettera di Alessandro Barbero
Cari amici di Nettuno,
che l’Italia sia tuttora un paese spaccato, è evidente a tutti e sarebbe sciocco non riconoscerlo. Nel 1945 noi siamo usciti da una guerra civile che ha visto vincitori e sconfitti, e quelli che hanno perso non hanno mai voluto riconoscere che per il paese la loro sconfitta era stata una benedizione.
Hanno continuato a pensare, e a raccontare ai loro figli e nipoti, che ci credono ancora oggi, che il fascismo non era così male, che Mussolini era un grande statista, e che i partigiani, invece, erano tutti canaglie. Gente così ce n’è tanta in tutta Italia, e voi a Nettuno ne avete la vostra parte; ed è gente magari in buona fede, che ripete, senza essere capace di ragionarci su, quello che ha sempre sentito dire in casa.
A me piacerebbe parlare con una di queste persone e chiedergli: ma davvero tu vorresti vivere in un’Europa in cui avessero vinto Hitler e Mussolini? Davvero vorresti che i forni di Auschwitz fossero rimasti accesi? Davvero non ti piace vivere in un’Italia in cui puoi dire tutto quello che vuoi senza finire in galera?...
avere un figlio come Mario Abruzzese, un ufficiale di cavalleria che ha fatto la scelta di salire in montagna rischiando la pelle quando l’Italia è stata invasa dallo straniero, un partigiano proveniente dal Lazio che ha portato la voce della sua terra in una regione lontana (e non per niente ha preso come nome di battaglia “Romanino”) dove combattevano partigiani, militari come lui, provenienti da tutte le regioni d’Italia. Uno di loro, il siciliano Vincenzo Modica, il comandante Petralia, ricorda che a deciderlo a unirsi ai partigiani, l’8 settembre, furono “le parole che l’amico tenente Colajanni andava ripetendo a noi giovani ufficiali durante le passeggiate sotto i viali di Cavour: ‘Vedete quelle montagne? Presto saranno piene di veri italiani’”.
Mario Abruzzese, il comandante “Romanino”, era uno di loro; ha combattuto nella valle di Luserna, cuore della comunità valdese, una delle zone più austere e religiose d’Italia, dove il sostegno della popolazione ai partigiani era totale, e il controllo sociale sul loro operato severissimo; e ha combattuto alla liberazione di Torino dove ha contribuito a salvare dalla distruzione gli impianti della FIAT Mirafiori, per l’Italia del domani. Che una città che ha avuto l’onore di dare i natali a un uomo così, sia piena di gente che si dà da fare inventando menzogne per infangare la sua memoria, è una cosa che farebbe ridere se non facesse piangere, ed è la prova delle strane contraddizioni di una destra italiana che a parole si vanta di preoccuparsi dell’onore e della gloria d’Italia, e poi fa di tutto per infangarli.
Alessandro BARBERO
Prof. di Storia all’Università
del Piemonte Orientale
Abitava a Paliano dove sostò la famiglia Goretti quando lasciò Corinaldo
L’omicidio di Willy
Un filo invisibile collega la morte di Willy Duarte Monteiro a Santa Maria Goretti, la Santa bambina uccisa da Alessandro Serenelli alle Ferriere il lontano 6 luglio 1902. Il primo, morto per difendere un amico, la seconda per difendere la sua purezza. Ebbene entrambi sono vissuti a Paliano. Willy, originario di Capo Verde vi si era stabilito con la sua famiglia, studiava e lavorava come aiuto cuoco in un ristorante di Artena, Marietta, come affabilmente veniva chiamata dai congiunti, vi aveva sostato con la famiglia quando il padre aveva deciso di lasciare Corinaldo, nelle Marche per trovare un lavoro con cui far sopravvivere la numerosa famiglia. Il paese di Paliano è tornato alla mente ai Nettunesi che si sono accomunati all’immenso dolore per la morte di Willy, caduto a soli 21 anni e che ha sconvolto l’Italia intera da quella terribile notte tra il 5 e 6 settembre scorso. A Paliano, Colleferro (luogo dell’uccisione), Artena (residenza dei presunti omicidi), si sono succedute alcune fiaccolate molto partecipate a suo ricordo, sono stati scoperti dei murales, l’ultimo ad Artena giovedì 24 settembre, per ricordare un ragazzo solare a cui è stata spezzata la vita in un modo così barbaro, inqualificabile, per futili motivi. Questo delitto ha commosso l’Italia perché ha portato a riflettere. Un tempo nei paesi, più che nelle città, erano radicati dei valori imprescindibili: il più forte del gruppo difendeva il più debole. Da tanti anni non è più così. Di ciò dobbiamo dare la colpa, sia ai genitori, troppo accondiscendenti, sia ai mass media che esaltano i più forti, i più prepotenti e dileggiano gli sfigati, sia alla mancanza di pene certe e severe contro chi sbaglia, sia alla carenza di associazionismo, di luoghi che risveglino la Cultura con la C maiuscola, che esaltino i veri valori dell’uomo, quelli per cui ci si dovrebbe battere, naturalmente con l’esempio e non con le mani. “Patto per Nettuno” ha fatto due proposte all’Amministrazione nettunese: intitolare i giardini presso il Presidio, giardini si fa per dire, perché purtroppo da anni sono abbandonati (alberi non potati, aiole piene di erbacce, viali ingombri di rifiuti), allo sfortunato Willy e bandire un concorso nelle scuole di Nettuno con in premio una borsa di studio per riflettere su quanto accaduto, per verificare se ancora nei giovani c’è del buono e non soltanto l’emulazione del più forte, del più tatuato, del più furbo, del più trasgressivo.
Rita Cerasani
Un mondo troppo maschile
“In un mondo ancora troppo al maschile, servono coraggio e rispetto delle parole”
Mancano due mesi al 25 novembre, Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, eppure le parole rischiano di essere vanificate insieme allo sforzo delle donne e delle associazioni che costruiscono progetti di cambiamento.
Come mai?
oggi i comportamenti violenti, contro obiettivi di diverso genere e tipo, si sono moltiplicati.
È diventato normale il linguaggio crudo, violento, che toglie dignità e che riceve consenso a causa della sua immediatezza.
Viviamo in un epoca contemporanea dove si proietta la propria rabbia, le proprie frustrazioni su oggetti, di volta in volta identificati come il nemico/a che hanno avuto quello che si meritavano.
Oggi la violenza va di moda, dunque, parlare contro di essa richiede coraggio. Non solo il coraggio di dire basta ma anche quello di agire in modo coerente e di conseguenza.
Nell’epoca in cui si diventa sospettosi nei confronti di ogni forma di cultura e di rispetto della dignità dei diritti, oggi come non mai serve questo coraggio.
Dall’altra parte, siamo in un mondo che sta dimenticando che i diritti sono di tutti o diverranno prima o poi di nessuno, permane un’esclusione a tutto tondo delle donne dalla macchina del potere, dai centri decisionali, da condizioni di lavoro migliori e più garantite.
Le eccezioni sono poche e guardate con simpatia quasi ad attenderne la fine, a sottolineare che non è vero che le donne sono escluse, che, se vogliono, ce la possono fare, un patetico incoraggiamento che non fa altro che sottolineare quanto il mondo sia ancora al maschile. Si dice poi che occorre educare al rispetto, si richiama la necessità di introdurre tale insegnamento nelle scuole, qualcosa è avvenuto, troppo poco certo ma per fortuna ci sono associazioni che si muovono in tal senso…
E tuttavia che valore ha tutto questo, in un mondo che a partire dai vertici continua ad assegnare alle donne ruoli secondari? Un mondo in cui il corpo delle donne continua ad essere concepito come una merce da vendere con la complicità consapevole o no delle loro coscienze, quando gli spazi di aiuto alle donne, centri di ascolto, vengono chiusi, oppure non fanno rete, quando le violenze e gli stupri sono visti come il risultato del comportamento delle donne.
Quando il linguaggio non ha la capacità di narrare fatti in cui le donne sono vittime utilizzando termini ed espressioni inadeguati; un esempio tra tanti: il marito uccide la moglie perché disperato non voleva accettare la fine della loro unione…Perché non dire che il marito uccide la moglie perché la considera una cosa sua e non accetta la possibilità che questa possa scegliere di lasciarlo, o dire che ciò avviene perché è un violento?
Più facile dire che è perché lei voleva lasciarlo.
La comunicazione, è importante e molte volte viene distorta dall’uso delle parole, dobbiamo cominciare a parlare di rispetto. È da ognuno di noi, dalla pratica quotidiana del rispetto della dignità di tutti che possiamo cambiare le cose.
È una questione su cui non si delega e non si tratta. Dobbiamo educare i nostri figli, i nostri studenti, ma prima noi stessi, il rispetto parte da tutti noi. Si ricorda, si dice che occorre tenere alta l’attenzione, certo, e questo è un primo passo, ma serve se diviene memoria, attenzione e prassi di ogni giorno. Solo così possiamo dire che diveniamo e restiamo tutte e tutti umani.
La storia di Maria
(nome di fantasia)
Dieci anni di soprusi, violenza psicologica e fisica, anche davanti al loro bambino. È stata questa la terribile quotidianità di Maria una donna come tante, che ha scambiato l’egoismo e la brutalità del suo compagno di vita per amore. Nessuno la sosteneva in questa battaglia, ma non era del tutto sola: la forza definitiva, la spinta che ha fatto la differenza, è stata la consapevolezza della violenza subita dal figlio. Siamo riusciti a raccogliere la testimonianza di Maria grazie all’aiuto fondamentale dello
Sportello “Uscita di sicurezza” che dal 2014 porta avanti dei progetti rivolti alle donne vittime di violenza e ai loro figli, per ricostruire passo dopo passo il rapporto di fiducia, minato da anni di conflitti domestici con la figura del maltrattante. Maria ce l’ha fatta: lei e il suo bambino oggi sono riusciti a riprendersi in mano la propria vita.
Maria ha 41 anni ed é italiana.
Anna Silvia Angelini