SIMPOSIO
RICOMINCEREMO???
Ci sono più punti di domanda per saperlo. Seguiamo ogni giorno con apprensione gli aggiornamenti dell’evoluzione della pandemia e … speriamo. Intanto stiamo lavorando e programmando per quando ricominceremo. Mai come in questa circostanza si è sentito il bisogno di stare ‘vicini’. Così la casella della posta si è riempita di tanti articoli, saggi e poesie che serviranno per i futuri incontri, per le prossime pubblicazioni di quaderni e, naturalmente, per tutti voi che ci seguite su Il Litorale. Stiamo vivendo in un metaforico hortus conclusus un giardino del paradiso che la tecnologia ci ha permesso di animare dei nostri più cari Amici e la fantasia della Libertà di inventare tante situazioni a noi gradite.
Speriamo però d’incontrarci presto per davvero!!!
Giuliana
“L’otium, la poesia e la musica”
di Maria Grazia Vasta
Virginia Woolf diceva: “Nell’ozio, nei sogni, la verità sommersa viene qualche volta a galla”.
Molto prima di lei nel mondo antico lo status di otium (vs negotium), lontano dal concetto di pigrizia ed inettitudine, era fondamentale per i ricchi romani, come lo fu la σχολή (scholé) per quelli greci, cioè “tempo libero” (nessuna necessità di lavorare) da dedicare ad attività ginniche e alla conoscenza di se stessi, una dimensione privilegiata, “altra”, sacra, che favoriva la meditazione, la concentrazione e la creatività, rappresentando l’humus che poteva favorire gli studi e nutrire le elucubrazioni filosofiche e la produzione letteraria.
Ma di certo anche la musica risponde ad un’esigenza atavica di riempire il vuoto fertile che a volte si forma nella mente di un musicista, nella cassa di risonanza del suo ricco animo, da riempire con le nuove sensazioni, conoscenze ed esperienze di vita e che esprime ugualmente, ma in altra forma artistica, i sentimenti e le idee che sottendono alla poetica di un letterato.
Poesia e musica sono da sempre correlate, fin dall’antica poesia greca, detta “lirica” perché accompagnata dalla lira. E gli “aedi”, durante le feste, cantavano in versi le gesta degli antichi eroi e degli dei protagonisti dei poemi omerici.
Nella cultura tardo-cristiana e poi bizantina, dopo un periodo di diffidenza verso la poesia, considerata commista al paganesimo, ci fu una riconciliazione con la stessa, che quindi fu utilizzata per i carmi epigrafici, sapienziali e profetici, oltre che religiosi. Ad affiancare la liturgia era in voga una poesia-preghiera innica, divisa in rigida metrica e accompagnata dalla musica.
In epoca medievale i trovatori, così come menestrelli, giullari, cantastorie e poeti girovaghi, mettono in musica poemi di carattere profano, non religioso, usando in modo innovativo la lingua volgare per parlare e dissertare specialmente d’amore (la “Fin’amor” o “Amor cortese”).
Nel Medioevo e nell’Umanesimo anche in Italia le due arti sono collegate e lo stesso Dante fa musicare i suoi testi all’amico Casella (Purgatorio, canto II), mentre poi Petrarca stesso canterà con voce melodiosa i suoi versi accompagnandosi con un liuto.
Nei secoli successivi, dal Rinascimento al XX secolo, si rafforzò questo legame, per il mecenatismo dei principi e delle classi agiate, per le esigenze d’intrattenimento della corte e dei salotti culturali, fiore all’occhiello della nobiltà e dell’alta borghesia, e infine in considerazione del fatto che le due arti facevano parte integrante dell’educazione e del bagaglio culturale ideale di ogni uomo e donna di una certa raffinatezza e levatura morale e sociale.
L’associazione tra meditazione, poesia e musica sembra logica e consequenziale, visto che anche la parola è suono e viene scelta con attenta cura dal vero letterato per creare armonia e musicalità anche in assenza di strumentazione tecnica d’accompagnamento.
Come nel buddismo tibetano l’Om (o Aum) fa vibrare le corde vocali svuotando la mente per la meditazione, oggi in vari ambiti culturali e sociali si utilizzano tecniche di rilassamento e di ascolto di sé e degli altri mutuate spesso dal mondo orientale e dal concetto di otium greco-latino, propedeutiche alla creazione teatrale, letteraria e artistica, alle performance sportive, scolastiche o lavorative e al raggiungimento della serenità e dell’equilibrio interiori, dovuti all’agognata consapevolezza di sé e dei bisogni del proprio essere.
ALLA RIPRESA DEI SIMPOSI ANCHE OMERO
di Sergio Bedeschi
Se la cosidetta questione omerica costituisce un dibattito ancora non risolto circa l’individuazione di chi sia il vero artefice o di chi furono i vari artefici che con l’Iliade e l’Odissea consegnarono al mondo il capostipite del poema epico, non meno controverso è il giudizio che si è dato e che ancora si tenta di dare sul merito e sul valore delle più note traduzioni dal greco nelle varie lingue del mondo. Come forse già sapete alcuni di noi del Simposio si sono lanciati da qualche tempo verso l’ambizioso progetto di intrattenere gli amici con qualche chiacchierata “omerica”, nonché nell’ancor più presuntuoso obiettivo di recitare in diretta davanti a voi alcuni passi celebri e sublimi.
CHI FU IL MIGLIOR TRADUTTOR D’OMERO?
Allo scopo ci saremmo scelti, per amore o per vizio, tra le non poche traduzioni disponibili, quella di Vincenzo Monti. Ma è davvero la migliore? Utilizza un linguaggio troppo arcaico? Riusciremmo a farci intendere e apprezzare? Dato che il Ravennate la compose nel 1815 (quindi con un linguaggio tipicamente neoclassico seppur addolcito dall’ormai emergente spirito romantico) non potevamo sceglierci comodamente una traduzione più recente priva di quelle troncature, apostrofi, latinismi, grecismi, licenze poetiche che oggettivamente rendono non semplice la poesia al suo primo ascolto? Vi confesso che questo è un bel problema e vi spiego perché.
L’ILIADE IN DIALETTO VENEZIANO
Di traduzioni ce ne sono davvero tante, da quella di Polibio (dal greco al latino) nel primo secolo dopo Cristo, al Cesarotti alla fine del settecento e a tante altre perfino negli ultimi decenni. Inutile dire che, oggi come oggi, le troviamo nelle più svariate lingue, francese, inglese, gallese, tedesco, spagnolo, russo, sloveno, cinese, oltre che, pensate un po’, in dialetto friulano, veneto, abruzzese e catanese, tanto per dire quelle più note. Tacendo poi sulla celebrata versione inglese del poeta Alexander Pope, piace ricordare che anche quel libertino del Casanova ci ha lasciato un’opera completa in buon italiano (lui che amava scrivere in francese), oltre che un’altra bizzarra versione appunto in dialetto veneto. C’è poi il Foscolo, inquieto e polemico come sempre, che, dopo aver ingiuriato il Monti accusandolo “gran traduttor del traduttor d’Omero” (che spiegato in soldoni significa “scopiazzatore”), riuscì a tradurre in poesia soltanto pochi versi lasciando un lavoro decisamente incompiuto e pasticciato. Non che il Foscolo avesse tutti i torti: infatti il buon Monti, pensate, non conosceva una parola di greco, onde per cui capirete anche voi che qualcosa non quadrava. Tuttavia è anche vero che l’abilità e la capacità del Monti arrivò al punto tale che, traendo ispirazione (e forse anche qualcosa di più) dal lavoro del Cesarotti (che il greco lo sapeva benissimo), riuscì a realizzare quella che oggi giudichiamo essere il risultato migliore. Non per niente Madame de Staёl andò strombazzando per tutta l’Europa la grande impresa del Monti. Così come più tardi sarà il Carducci a sancirne il valore.
MONTI POETA
Perciò ci siamo scelti il Monti. Dirottare su qualche traduttore più recente, credetemi, è davvero poco consigliabile. Tentativi ce ne sono tanti, per la verità (in primis quella di Franco Ferrara), ma tutte cose che, se sono apprezzabili per chiarezza, sono più che altro lavori in prosa che non contengono mai l’afflato della poesia. E allora, vada per il Monti, mi sono detto. Perché, se è vero che non sapeva il greco e che non poco scopiazzò dal Cesarotti e da Polibio, è anche vero che seppe esser poeta. Ed esser poeta non è cosa da tutti. Naturalmente qualche termine l’abbiamo semplificato, scegliendo tra le non poche edizioni montiane o cesarottiane. Peccato veniale, questo, al fine di essere più facilmente compresi.
Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
l'ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco
generose travolse alme d'eroi,
e di cani e d'augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l'alto consiglio s'adempía), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de' prodi Atride e il divo Achille.
E qual de' numi inimicolli? Il figlio
di Latona e di Giove. Irato al Sire
destò quel Dio nel campo un feral morbo,
e la gente pería: colpa d'Atride
che fece a Crise sacerdote oltraggio.
Omero, Iliade, traduzione di Vincenzo Monti
Sul concetto di LIBERTÀ /4
di Lia Bronzi
Non più schiavi
Così aveva affermato Aristotele ventiquattro secoli fa.
«Non vi saranno più schiavi quando le spole gireranno da sole». Ma il noto economista americano Galbraith, impressionato dalla sempre più soverchiante importanza conseguita ai giorni nostri dalla produzione industriale, dai consumi di massa, dal reddito pro capite e così via, ha avanzato il dubbio, con drammatica evidenza, che l’uomo possa divenire schiavo della macchina da lui stesso creata, inseguendo un sempre maggiore sfruttamento sulle forze della natura allo scopo di migliorare sempre di più le proprie condizioni materiali di vita.
Scienza e tecnologia insieme
Se l’uomo risolve, tramite le nuove tecniche economiche, i problemi del giusto equilibrio tra risparmio ed investimenti e quindi della disoccupazione e del sufficiente reddito per tutti, ed avvia l’umanità, tutta l’umanità, verso la libertà dal bisogno, e poi sacrifica per questa strada gli altri aspetti della vita che non sono meno importanti dell’aspetto economico della medesima, la sua fatica risulterà in definitiva più dannosa che utile, perché sarà un arricchimento di tutta la specie umana, ma la crescita mostruosa di una parte di essa contro tutte le altre.