L’opinione del generale Sergio Franchi sulla tragedia del quindicenne ucciso a Napoli che si porta dietro una scia di polemiche
Giovane ucciso a Napoli: io sto con il carabiniere
Perdere un figlio di quindici anni è un dramma per i suoi familiari; un dramma esistenziale di quelli che restano indelebili per la durata della loro vita. Per i genitori, poi, rappresenta una violenza psicologica che da cui non c’è speranza di ripresa. Detto questo posso comprendere il dolore, che parenti e genitori del ragazzo che è stato ucciso a Napoli mentre tentava una rapina, hanno ritenuto opportuno di manifestare su decine di trasmissioni televisive; anche se non ne condivido le modalità. Il problema umano è tutto li sotto i nostri occhi e merita tutta la nostra comprensione. Poi ci sono i fatti, tragici e, in qualche modo, semplici da decifrare: un giovane insieme alla sua fidanzata sono seduti in auto quando una persona, con casco integrale proveniente dal retro dell’auto, si avvicina al finestrino e punta una Beretta calibro nove alla tempia del giovane gridando che “se non mi dai l’orologio ti faccio saltare le cervella”. Il giovane, che è un Carabiniere fuori servizio si qualifica ed allontana la pistola dalla propria testa, ma il rapinatore insiste e ripete la sua minaccia facendo scarrellare l’arma per immettere la pallottola in canna e renderla pronta allo sparo. A questo punto il giovane Carabiniere estrae la propria arma d’ordinanza e fa fuoco colpendo il rapinatore in più parti del corpo. Questa è la ricostruzione approssimativa che possiamo fare in base ai documenti che la stampa e la tv hanno divulgato. Una ricostruzione che non pretende di definire il dettaglio delle responsabilità che spetta all’Autorità inquirente e ad un Giudice. Il rapinatore morto si rivelerà essere Ugo Russo di anni quindici; il Carabiniere, un ragazzo di 23 anni. Questi i fatti e questa è la cronaca di assoluta normalità nella zona di Napoli, una cronaca che vede ulteriori sviluppi con il successivo assalto e la distruzione di un pronto soccorso di un ospedale della zona da parte di amici e familiari dell’ucciso ed una sparatoria da parte degli stessi rivolta verso la Caserma del Carabinieri, il giorno successivo. Avendo vissuto a lungo negli Stati Uniti ed avendo conoscenza del sistema di quel Paese posso assicurare che se ciò fosse accaduto in una città americana il rappresentante della Polizia sarebbe stato insignito di medaglia al merito e promosso al grado superiore, ma per fortuna noi siamo in Italia, che resta la Patria del Diritto ed alla luce del Diritto e della legge di questo Paese che la vicenda dovrà essere giudicata sul piano legale. E’ sul piano sociale che è scoppiata la diatriba sui media e due sono le tesi: il Carabiniere ha fatto il proprio dovere come agente di Polizia e come semplice cittadino e un Carabiniere deve essere un professionista e deve poter fermare un aggressore senza ucciderlo. Vorrei vedere i difensori di questa seconda tesi, a cui io non mi sento di aderire, a verificarla in proprio. Quindi due tesi in contrasto che hanno spaccato l’opinione pubblica. E’ poi la solita diatriba con cui si vuole trasportare un fatto di criminalità assoluta nell’ambito della sociologia e della politica: è il vecchio meccanismo con cui negli anni sessanta fu abolito il privato e tutto era diventato “sociale”. Certo che tutto è sociale, certo che un ambiente degradato genera “mostri” ma giustificare i mostri con l’ambiente degradato significa aggiungere degrado al degrado. L’ambiente in cui viveva il povero ragazzo napoletano è privo di servizi sociali, è privo di incentivi all’agire onesto ma può questo giustificare il fatto che un ragazzo di 15 anni all’una e trenta di notte con una Beretta, che poi si rivelerà essere un’imitazione, vada in giro a rapinare la gente per bene? Può giustificare che decine di persone vengano incitate a distruggere un pronto soccorso in un momento di emergenza sanitaria? Il degrado socio-ambientale può giustificare che il giorno successivo ragazzi in motocicletta sparino verso la Caserma dei Carabinieri? La difesa del povero ragazzo è affidata al padre che su tutte le tv e sui giornali porta avanti la sua tesi: il Carabiniere ha fatto bene a difendersi ma non doveva ucciderlo. Sulla consistenza di questa tesi è difficile dare un giudizio a freddo ma, avendo qualche conoscenza di armi da fuoco, nutro seri dubbi che essa possa prevalere. Ma non sono d’accordo proprio con quel padre che ci viene a raccontare che lui dormiva mentre il suo bambino in piena notte se ne andava in giro a rapinare Rolex che, oltre tutto, non sono oggetti che producono poche decine di Euro, per farsi una pizza, ma ne producono migliaia anche in ambito di ricettazione. Non sono d’accordo col fatto che egli ne parli come se non fosse una sua specifica ed inderogabile responsabilità quella di vegliare ed educare il suo “bambino”; non sono d’accordo col fatto che egli attribuisca il comportamento delinquenziale alle lacune di un aggregato sociale di cui si è parte integrante e ma certo non un buon esempio, visti i suoi precedenti e la sua vita presente e le sue attività lavorative che si basano sul reddito di cittadinanza. Ne tanto meno sono d’accordo col fatto che il ragazzo Carabiniere che, ricordiamolo, è e resterà la vittima superstite di questo dramma, debba essere assoggettato ad una penosissima indagine come “assassino volontario”: pochi sono i casi come questo in cui la difesa sia avvenuta sotto una situazione di “ pericolo imminente”. Io non posso che stare dalla parte di chi si difendeva da un pericolo e da una rapina perchè non mi troverò mai dalla parte di chi fa rapine, di chi ne difende l’operato e di chi ne giustifica il comportamento, proprio come fanno quei tanti ragazzi coetanei del giovane Russo che ne condividono il disagio sociale combattendolo con l’onestà dei comportamenti.
Sergio Franchi