ca, straziante. Come i versi dedicati a quel “monello” di Gigi Meroni, genio istintivo del pallone, che ci incantò negli anni ’60 e che morì giovanissimo in modo tanto banale, quanto tragico.
Fernando Arcitelli scrisse di lui:
A Gigi Meroni
Gigi, amico che non t’ho conosciuto,
come diverso m’apparve l’Oratorio
il giorno dopo… senza Te.
Stremato di dolore era il campetto,
orfani noi bimbi, mute le porte
(di solito chiassose!) e goffi i nostri
tentativi sulla destra…
qualcuno mancava sulla fascia: il tuo Cuore!
Fernando Arcitelli la prese alla grande con il suo libro La solitudine dell’ala destra nel quale dedica versi di diverso stampo a quasi 200 calciatori del suo tempo. E del vostro tempo che fu. Ci troverete gli eroi della storia antica che ci facevano sognare quando eravamo bambini: Levratto, Piola, Amadei nomi persi nella memoria. Rivedrete i dribbling ubriacanti di Lorenzo detto Veleno e di Sivori il cabezòn, ammirerete ancora una volta la “foglia morta” di Mariolino Corso, e poi l’abatino Rivera che sembrava danzare sulle nuvole e poi lui, rombo di tuono, Giggggi Riva! Per non dire di quel viaggiare a testa bassa lasciando tutti per strada che era proprio di Bruno Conti…
Bruno Conti (uno di Nettuno, dico!).
ERNESTINA DEL GIGLIO BLU
Naturalmente ci sono anche le donne a scrivere sull’argomento, ve lo dovevate aspettare. Noi ne abbiamo scovata una tra i nostri “cugini” di Arezzo e di Firenze, intendo dire tra i collaboratori della rivista Luogos che ormai conoscete benissimo perché lì dentro ci mettono l’anima e il cuore, tra gli altri amici, Lia Bronzi e Enrico Taddei. Quelli del Giglio Blu, insomma. Una bella, elegante rivista che esce quattro volte all’anno, ovviamente facendosi desiderare, nelle magiche date degli Equinozi e dei Solstizi dell’anno. E nella quale da qualche tempo ci mettiamo il naso, anzi la penna, anche noi del Simposio di Lavinio. La poetessa di turno è Ernestina Carrato, la poesia eccola, ancora una volta un pretesto, niente altro che un pretesto per descrivere la parabola della vita:
Goleador
Una vita per lo sport.
Una continua ricerca
d’un’area di gioco favorevole.
Il goal che vale oro
e la vita cambia direzione
mentre il pallone va dritto in porta.
Il pubblico che esulta, osanna.
Calato ora è il sipario sui campi di calcio
e sui fili d’erba che accolgono
le nostre lacrime.
Tace ora lo stadio.
Si spengono le luci.
Muta è la speranza.
Solo il ricordo sarà acceso
con milioni di fiaccole dorate per l’ultima hola.
Ernestina Carrato
Grazie Ernestina, benvenuta tra queste nostre pagine del Litorale! Alla prossima puntata.
SCRITTURA AL FEMMINILE
Rubrica aperta a tutti
Una donna
che scrive versi
è poetessa o poeta?
di Ivana Moser
La lingua è un organismo vivo e in costante evoluzione: le parole nascono, muoiono, acquistano nuovi significati, conformandosi ai cambiamenti sociali e culturali e a sensibilità decisamente mutate.
All’interno di questa evoluzione e cambiamenti, illinguaggio di genere è stato e ancora è un campo minato. Declinare al femminile i sostantivi, e più precisamente il declinare le molteplici attività professionali di cui esistevano solo le forme maschili, semplicemente perché per secoli esse sono state precluse alle donne, ha portato a dibattiti e contrasti sempre più accesi e non ancora spenti (sindaca, ministra ecc.).
Il termine “Poetessa”
L’italiano, lungo tutta la sua storia, testimonia l’uso del solo termine poetessa per la donna che si dedica all’arte poetica. È di derivazione classica, accreditata da secoli di uso letterario, le cui prime attestazioni epigrafiche risalgono al III secolo a.C. e si riferiscono alle poetesse vaganti di età Ellenistica.
Saffo (VII – VI sec. a.C.)
È la prima voce letteraria femminile dell’antichità occidentale, nell’Antologia Palatinaviene definita la “decima musa” dopo nove poeti lirici, la parola poeta declinata al femminile (ποιήτρια) non esisteva ancora.
Alla fine degli anni Ottanta
Il suffisso – essa viene messo in discussione nell’opera Il sessismo nella lingua italiana (1987), curata da Alma Sabatini e promossa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dalla Commissione per le Pari Opportunità, un testo che mirava alla parità linguistica tra i generi, supplendo alla mancanza, nella lingua italiana, di declinazioni al femminile di alcuni termini.
Nelle sue Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, Sabatini notava che il suffisso- essaaveva assunto spesso una connotazione spregiativa e ridicolizzante.
Lasciamo le ministresse, le deputatesse eccetera agli altri paesi, a noi piace che le nostre donne restino a casa a badare ai figlioli, in altre parole a fare le donne (Mussolini, 1929).
Ma già prima Carducci aveva parlato, e sempre in tono ironico, di ministresse e generalesse e prima ancora il medico e letterato Anton Francesco Bertini (1658-1726) aveva scritto:
infino le donnicciule e veccherellevoglion fare le medichesse; e quasi che elle siano le satrapesse dell’arte.
Intento denigratorio
Unacospicua dose di sarcasmo ha segnato la formazione di numerosi termini femminili in - essaedè indubbio che a partire dall’Ottocento queste forme hanno acquisito una connotazione dispregiativa, una sfumatura ironica e spesso peggiorativa e stigmatizzante, nell’accezione comune e perfino in letteratura e sulla stampa.
Certa cinematografia comica italiana degli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo ci ha poi abituati all’attribuzione di una valenza ironica, sarcastica e maliziosa alla declinazione femminile di alcune professioni: la “professoressa”, la “dottoressa”, la “soldatessa” ecc.
In origine il suffisso - essa
era utilizzato per ricavare un femminile da un nome maschile, soprattutto in termini indicanti titoli nobiliari (principessa, baronessa, contessa) e relazioni familiari, la moglie o la figlia di chi esercitava una funzione. Queste forme sono entrate nell’uso in un momento in cui si riteneva di dover esplicitare il femminile tramite un suffisso, oggi considerato ingombrante. L’aggiunta rende le forme femminili più pesanti, per cui sono da preferire alternative senza suffisso, se disponibili, suggerisce Sabatini nelle sue Raccomandazioni, nelle quali il bando ai termini in – essa è quasi assoluto: dichiarate accettabili le forme professoressa e dottoressa, anche profetessa in contesti di discorso storico, ma si rifiutano poetessa, studentessa e tutti i femminili in - essa da nomi maschili in e e a.
Si tratta qui di raccomandazioni, non di legge, che come tali possono essere seguite o meno.
Nella critica letteraria del Novecento
Un utilizzo in qualche modo discriminatorio del termine “poetessa” pare etichettasse già le scrittrici del diciannovesimo secolo, in particolare le Poetesse degli Anni Venti e Trenta, accusate da molti critici elitari maschi di aver scritto “cose di donne”, di aver fatto del sentimento il proprio argomento principe. Il lavoro della Poetessa era, dunque, pertinente alle emozioni, gradevole, di facile lettura, ma non era visto come realmente artistico né ambizioso. si legge in un articolo di tradotto da . E l’autrice aggiunge:
Alcuni critici del ventesimo secolo hanno espresso riserve sulla qualità del lavoro prodotto dalla tradizione delle Poetesse perché i temi erano tipicamente di natura sentimentale, tesi a provocare emozioni più “tenui”: modalità di risposta spesso associata a mancanza di razionalità e verve intellettuale […] siamo stati culturalmente condizionati a credere che il sentimento vada benissimo, ma sia privo di ambizione e non sia prodotto di autentico genio (maschile).
La poetessa o la poeta?Ammettendo che il suffisso - essa abbia perso molto della connotazione negativa che gli era stata attribuita, che non sussistano più pregiudizi associati al termine “poetessa” e considerando unicamente l’aspetto linguistico, poeta al femminilenon appare però un caso isolato, né tantomeno una stortura. Svariate parole derivanti dal greco sono invariabili: atleta, dentista, artista, musicista, concertista e altre ancora.
L’Accademia della Crusca registra che i due termini possono essere affiancati dopo la proposta di Alma Sabatini (1987).
È dunque la libertà personale di definizione e autodefinizione che porta a scegliere l’una o l’altra forma, nella consapevolezza dell’esistenza di differenti possibilità, tutte con la stessa valenza scientifica. La scelta è insomma una questione di percezione e sensibilità personali.