IL SIMPOSIO
IERI, OGGI e DOMANI
Ieri, è già un ricordo. Il sofferto isolamento aveva messo in luce molte anomalie della vita che eravamo stati costretti a lasciare fuori dalla porta. Una vita che ci mancava, è vero, ma che riflettendo onestamente, favoriti dal silenzio e dall’isolamento scoprivamo molto che era una vita molto spesso assurda. Appena tutto sarebbe finito, bisognava assolutamente cambiare.
Oggi, la gioia della quasi libertà ritrovata e il ritorno alle nostre consolidate abitudini hanno fatto dimenticare quanto avevamo aspramente criticato. Qualcuno, forse, ricordandosi dei buoni propositi dirà: da domani, comincerò una vita nuova!
Giuliana
RIFLESSIONI
IN QUARANTENA E OLTRE
NO, NON VA, NON ANDRÀ TUTTO BENE
di Ivana Moser
IL TITOLO richiama lo slogan di risposta anti-virus “Andrà tutto bene”, sorta di preghiera laica, un , che si rifà a un piccolo murales di ben otto anni fa su un muretto del lungomare di Rosignano (LI) e realizzato da un fumettista del luogo (F.R.), durante un suo momento difficile, allo scopo di infondere coraggio a qualcun altro.
Storicamente il motto affonda le sue radici nella fede cristiana, nell’espressione “ALL SHALL BE WELL/ Tutto sarà bene e ogni cosa sarà per il bene”, utilizzata dalla mistica inglese Giuliana di Norwich vissuta nel XIV secolo, in un’epoca segnata da guerre e pestilenze.
LA RIFLESSIONE che segue, scritta in fase 2, rientra in una serie di quattro scritti, i primi 3 in piena fase 1 (non pubblicati qui).
NO, NON VA, NON ANDRÀ TUTTO BENE
LA MEMORIA … tanti cassetti, alcuni senza serratura, eppure una volta chiusi non verranno mai più aperti, altri muniti di ogni tipo di serratura, in cui si cerca di racchiudere uragani e cataclismi. Vano tentativo della razionalità quest’ultimo, perché certe onde emotive, per loro natura, non possono essere arginate, sono destinate a riemergere come tsunami raggiungendo la costa. Il quando? È solo casuale questione di tempo.
Leggo e rileggo questo tempo per congiungere fili e sciogliere nodi, per dare un senso al moto ondoso delle lacrime di commozione e di dolore e anche a quelle mosse dalla spettacolarizzazione dei buoni sentimenti. Cosa è rimasto di quel mancarci, del senso di fratellanza/sorellanza, di quelle canzoni cantate insieme, dei tanti saluti e sorrisi dai balconi? Ma soprattutto cosa è rimasto di quei frequenti rintocchi di campane a morto, delle immagini di quei lunghi cortei funebri di camion militari, di quel personale sanitario stremato? Commozione e partecipazione emotiva hanno ben presto ceduto il posto a sdegno, rabbia, menefreghismo, a troppe parole e discorsi vani.
AGGRESSIVITÀ E ODIO hanno radicalmente mutato la narrazione individuale e collettiva, non trama letteraria ma trama bestialmente vera, e questo già ben prima della pandemia, ma ora, dopo la tragica esperienza, non è mutato alcunché. L’habitat di pensiero di questo nostro tempo è lo stesso con cui è cominciata la nostra storia millenni fa: mors tua, vita mea o anche vita tua, mors mea. Storia antica eppure spaventosamente presente, forse in questo senso l’uomo non è mai cambiato, non ci siamo mai evoluti. Con tutto il rispetto per gli animali, bestie eravamo e siamo rimasti, noi uomini, animati dal bisogno di qualcuno da mettere in croce, di qualcuno a cui addossare la colpa, di qualcuno sul quale rifarci per presunti torti subiti, di qualcuno sul quale scatenare il senso del sentirsi insicuri e perduti. Come se la vita dell’altro ci arrecasse danno, se non funzionale al nostro personale beneficio, come se l’altro avesse diritto d’esistere solo nella misura in cui ci compiace, non ci contraddice.
I SOCIAL SONO DIVENTATI spazio e tempo della divisione, ring del linguaggio spazzatura, dove spesso si azzannano anche persone che, oltre ad avere lo stesso colore di pelle e la stessa nazionalità (ops) – hanno persino esattamente le stesse idee, eppure ci si aggredisce perché ciò che è scritto si è letto in fretta, così velocemente da fraintendersi e poi non ci si è posto alcun dubbio su quella prima veloce lettura e su quella prima interpretazione. Specie sempre più rara quelli che non si autoassolvono e l’arroganza è male oscuro che ci pone al centro del mondo e permette di non rispettare, a cuor leggero, alcuna regola, di criticare qualsiasi regola, di aprire bocca per sputare sentenze nonsense. Incapaci come siamo di leggere con attenzione e vittime dei processi del pensare in velocità (fast thinking), al cospetto di ciò che non conosciamo attingiamo alla nostra bestialità, paura e rabbia trovano sfogo nell’attacco e fuga, antiche risposte sin da quando era solo da poco che non eravamo più bestie (ma siamo ritornati ad esserlo!).
ED ECCOCI QUA, ADESSO, sempre di più a guardarci in cagnesco, per strada e dietro ad uno schermo, ad aggredire anche con i tasti. Basta poco perché la miccia (in realtà innescata da dentro e non da fuori) si accenda e si decida di far pagare tutto il proprio dolore e la propria frustrazione a chi parcheggia prima di noi o a chi crediamo ci stia togliendo ciò che ci spetta, o a chi azzarda una risposta che non ci piace, o a chi non è d’accordo con noi.
NON SIAMO CAMBIATI, la pandemia e la quarantena non ci hanno cambiato. Non abbiamo smesso di essere tutti filosofi, psicologi, in breve tuttologi. Il silenzio non ci ha insegnato ad ascoltare fino in fondo, a tacere talvolta.
E ALLORA? Non ci sono formule e nemmeno ricette per questa sorta di pandemia morale. Volendo però, questo strano tempo potrebbe diventare un buon tempo, una buona occasione per ritrovare (se mai l’abbiamo avuta) o trovare la coscienza, intesa come luogo dove l’identità si interroga e si muove, dove il pensiero sa pensare sé stesso. Coscienza intesa come tempo nel quale è possibile osservare, tempo del pensare in lentezza (slow thinking), nel quale leggere e rileggere il mondo, leggere e rileggere sé stessi, liberandosi dalla bestialità dell’autocelebrazione, della conta dei propri, ma anche degli altrui, followers, like e condivisioni. Tempo per guardarsi in uno specchio autentico, reale, per scoprire che il nemico (e non mi riferisco chiaramente al Coronavirus) forse non sta fuori di noi ma abita e ama gli spazi nostri più intimi.
CHE FARE ADESSO? Meglio non attendere che lo tsunami d’inizio raggiunga la nostra costa e diventi ennesimo testimone di una realtà dove “No, non va, non andrà per niente tutto bene”.
30 maggio 2020
AVVENTURA IN CITTÀ
di Alessandro Evangelisti
FASE 2
Erano cinque mesi che non tornavo a Roma. L’ultima volta era stato durante le festività natalizie per acquistare alcuni regali. Poi, poco dopo l’inizio del nuovo anno, era intervenuta la disposizione di rimanere “tutti in casa” per fronteggiare la diffusione del virus. Era sempre stato piacevole per me tornare saltuariamente nel mondo indaffarato, rumoroso, brulicante di persone, della grande città. Questa volta avevo raggiunto direttamente il Centro storico verso il mezzogiorno di una assolata giornata feriale dello scorso Maggio. Ricordo che mi ero guardato attorno, e che, sorpreso, mi era venuto da pensare: “Sembra di essere al 15 di Agosto!” Infatti, poiché ormai da alcuni giorni era permesso di uscire di casa con più elasticità (ed alcuni esercizi commerciali avevano ripreso l’attività), mi aspettavo di trovare una città tornata - più o meno - al suo ritmo di vita normale. Mentre venivo in moto da Anzio, sulla Via Pontina quel mio pensiero ero stato confortato dal notare il solito traffico intenso di auto e camion e i soliti rallentamenti per gli immancabili “lavori in corso”. “È tutto come prima,” mi ero detto. Invece, una volta a Roma, ecco aprirsi uno scenario cittadino inusuale: benché fosse un Giovedì, poche auto erano ai semafori, pochissime sul Lungotevere sino a Ponte Garibaldi, poche le persone sui marciapiedi di Via Arenula (dove ero sceso) e a Largo di Torre Argentina. Mi colpirono il vuoto di tanti spazi e l’assenza dei rumori di sottofondo tipici del traffico nelle “ore di punta”. Era il 21 Maggio, una giornata non festiva, ma ebbi la sensazione di trovarmi, appunto, nell’atmosfera deserta del pieno Ferragosto. Le rade persone che incrociavo - tutte a “distanza sociale” e con la mascherina sul volto - vi contribuivano con il loro parlare in tono sommesso, quasi bisbigliando. “Forse la gente risente della paura del contagio.”, pensai nella calura dell’ora, con l’aria che sembrava ferma e densa.
MARCOVALDO
Mentre così riflettevo, per associazione di idee mi tornò alla mente un racconto di Italo Calvino (1923-1985), proprio sulla singolarità della giornata di Ferragosto. Del racconto è protagonista Marcovaldo, un magazziniere ingenuo e buono, sensibile, un po’ buffo e malinconico, che provava nostalgia del mondo della natura e che cercava di fuggire dalla tediosa quotidianità con la fantasia. Insomma, un sognatore. Ebbene, Marcovaldo attendeva ogni anno il mese di Agosto per vedere la sua città finalmente svuotarsi per la corsa alle vacanze. A furia di riempire treni e ingorgare autostrade, al 15 del mese se ne erano andati proprio tutti. Tranne uno.
Scrive Calvino: “[…] Marcovaldo era l’unico abitante a non lasciare la città. Uscì a camminare per il centro, la mattina. S’aprivano larghe e interminabili le vie, vuote di macchine e deserte […] Per tutto l’anno Marcovaldo aveva sognato di poter usare le strade come strade, cioè camminandoci nel mezzo: ora poteva farlo, e poteva anche passare i semafori col rosso, e attraversare in diagonale, e fermarsi nel centro delle piazze …” (I. Calvino: Marcovaldo ovvero le stagioni in città - “La città tutta per lui”). E, puntualmente, ogni anno, il suo sogno si rivelava di breve durata: al ritorno dei “vacanzieri”, la città di tutti i giorni avrebbe ripreso il posto di quella di Marcovaldo.
TUTTO TORNERÀ COME PRIMA
Anche nella nostra, attuale realtà tutto tornerà come prima, alla fine. Come nella fiabesca storia di Marcovaldo, le vie di Roma torneranno ad essere popolate di nuovo, il traffico ad impazzire e le auto a strombazzare. Il rinato clamore della città tornerà a scandire il tempo giusto delle stagioni, e ci dirà che il peggio è passato. Ma, mi domando: nella riconquistata normalità, potremmo mai dimenticare quei “[…] sovrumani silenzi, e profondissima quiete […]” (G. Leopardi, “L’Infinito”, 5-6) che hanno accompagnato le nostre giornate, all’epoca del Corona Virus?
Sul concetto di LIBERTÀ /1
di Lia Bronzi
«Non ci sono parole – ha scritto Montesquieu – che abbiano colpito gli animi in tanti modi diversi, quanto quella di libertà». E, in effetti, non è possibile rinvenire, nel pensiero politico e filosofico di tutte le epoche, una definizione della libertà univoca ed accettata da tutti. Se si apre un buon dizionario enciclopedico, si trova la libertà descritta (in contrapposizione a schiavitù) come lo stato di un popolo che si governa con leggi proprie, sia nel senso che non è asservito ad una potenza straniera, sia nel senso che non è soggetto a governo tirannico. In senso astratto e più generale, viene definita come la facoltà di pensare, di operare, di scegliere a proprio talento, l’autonomia che l’uomo rivendica per sé; cioè, in termini filosofici, quella facoltà che è il presupposto della possibilità del volere (è noto il verso di Dante: «Lo maggior dono che Dio per sua larghezza fesse creando ... Fu della volontà la libertade»). Ma il contenuto concreto di questa definizione generale ha subìto nel corso della storia variazioni e sviluppi notevolissimi.
Il pensiero greco non elaborò un rigoroso concetto della libertà. Dai presocratici ad Aristotele si credette nella razionalità determinata dell’universo, anche se si ammettono meriti e demeriti del singolo, presupponendo un volere umano responsabile dei propri atti. Si può affermare che Pitagora sia stato uno dei primi a voler plasmare uomini veramente liberi di pensiero, a propugnare l’abolizione della schiavitù e a proporre l’emancipazione della donna. Abbastanza viva l’esigenza della libertà è anche nella concezione di Epicuro, il quale, contro il rigido determinismo democriteo, cercò di spiegare l’iniziativa individuale. Gli stoici, al contrario, per poter affermare la rigorosa concezione causale dell’intero universo, inclusero l’agire umano nella trama degli eventi del mondo. Agostino, da parte sua, antepose alla responsabilità umana un prestabilito disegno divino, dando fondamentale valore alla «grazia».