Dal libro “Pomezia Origini Genti e Personaggi “ del professor Antonio Sessa, edito dalla Angelo Capriotti Editore nel 1990
Il duro lavoro nei campi degli anni ‘30
IL REGNO DEI CAPORALI
Nei pochi casali a Campo Selva, Campo Iemini, Solfatara, Santa Procula, ecc... abitava il personale stabile con le rispettive famiglie; accanto le capanne erano invece occupate dagli stagionali. Per tutto il territorio molte capanne isolate ospitavano caprai e boscaioli.
La vita nei campi era scandita da duri tempi di lavoro, imposti dai cosiddetti caporali che, al servizio dei fattori, organizzavano e dirigevano i vari lavori. Famosi per la loro durezza, erano al servizio dei D’Antoni i f.lli Germetti, abruzzesi che avevano ai loro ordini stagionali ingaggiati in Abruzzo e fra la gente di Ardea. La manodopera adulta veniva impiegata nei campi, per l’aratura e la semina fatta con i bovi aratori e per la stivatura di covoni e balle di fieno; i più piccoli aiutavano intorno. Stallieri, vaccari e pecorai si occupavano delle bestie; i frattaroli erano invece occupati a costruire steccati e recinti per impedire agli animali di sconfinare. Da lontano un filo di fumo annunciava il lavoro dei carbonai. Con l’inizio della bonifica e dagli anni venti, con il contenimento della malaria, si incominciò a lavorare intensamente anche in estate.
Attraverso il racconto di Luigi Piozzi, arrivato qui nel ‘37 da Ascoli Piceno, si può vedere che queste abitudini sono rimaste inalterate per tanti e tanti anni.
“Noi lavoravamo con Luigi D’Antoni, fattore degli Sforza Cesarini nell’azienda “La Fossa”, dove è l’attuale Nuova Florida. Quando siamo arrivati, avevo tredici anni. Noi eravamo stati assunti stabilmente; ma vi era anche tutto un piccolo esercito di stagionali reclutati da caporali, che venivano per lo più da Ardea. Pur se piccolo, io lavoravo con loro. Una ventina di persone costituiva un gruppo, composto soprattutto da donne, che si occupava della pulizia nei campi, di ammucchiare il fieno, di altri lavori agricoli. Mio fratello Giovanni curava il bestiame; il più piccolo, Dario, andava a scuola. Questi molte volte nel pomeriggio, insieme ad altri ragazzi, badava a tener lontano gli uccelli dai campi seminati. Mio padre Vincenzo faceva le staccionate. Abitavamo nel casale dove attualmente è il ristorante “Le Mimose”. Il lavoro intorno al bestiame era il più importante e faticoso; negli anni trenta solo alla Fossa vi erano fra cavalli, pecore e mucche, migliaia di capi. I cavalli erano di razza cisternese e le mucche maremmane. Le pecore in estate venivano portate in Abruzzo; le mucche nelle macchie di Anzio e Nettuno. In estate si preparava il foraggio per gli animali e si facevano tonnellate di fieno. Da noi alla “Fossa” gli operai stabili erano solo una decina, gli altri erano saltuari e stagionali. La paga, a giornata, era misera e quindi i fattori si potevano permettere di tenere tante persone ingaggiate saltuariamente. La vita ai casali era solo di lavoro; il nostro unico svago, diventati più grandi, era andare in bicicletta ad Ardea, fermarsi a chiacchierare o giocare nelle osterie di Cioeta oppure di Gerardo Volante”.
Gli antichi
“Vu cumpra”
Molti di coloro che abitavano il nostro territorio sono i diretti discendenti di quell’enorme esercito di “guitti”, campagnoli stagionali e pastori che, seguendo la transumanza delle bestie, da novembre a giugno lavoravano nei casali e nelle fattorie. Molti di loro, per effetto di questa frequentazione annuale, si fermarono poi sul nostro territorio. Venivano prevalentemente dall’Abruzzo, dai territori di Sora e Frosinone, lungo le direttrici antiche della transumanza, dall’interno del Lazio: Guarcino, Vallepietra, Jenne per Valmontone e Velletri; e ancora dai territori delle province dell’Aquila e di Rieti attraverso Palombara, Tivoli-Ponte Lucano e Cecchina.
All’inizio dell’autunno scendevano verso i nostri territori migliaia di capi di bestiame, con un flusso quasi ininterrotto. Controllati attentamente da pecorai e vaccari, capre, pecore, vaccine c cavalli viaggiavano per una settimana, seguiti da un piccolo esercito di guitti ingaggiati dai caporali, fino ad arrivare sul nostro territorio. All’arrivo gli animali venivano distribuiti per i vari pascoli: nelle paludi potevano pascolare, grazie alle gambe lunghe, vacche e cavalli; nei pascoli più interni pecore e capre.
Al servizio dei caporali, i guitti venivano impiegati per nove mesi nei lavori più umili e duri. Furono proprio loro i più colpiti dalla malaria, che ne uccise tanti. A giugno, con la partenza delle bestie e l’arrivo del caldo e della malaria, i guitti risalivano verso le terre di origine portando alle loro famiglie il misero guadagno di una stagione di lavoro. Sembra una storia moderna dei “Vu cumprà” africani e mediorientali. Fu un grave errore e una ingiustizia aver ignorato in occasione dell’assegnazione dei poderi questa moltitudine di diseredati, che da anni già lavoravano sul nostro territorio.
Antonio Sessa