Non è dignitoso cantare e ballare nelle tragedie, come oggi con il coronavirus
Non si può gioire nella disgrazia
Forse era nella logica, data la sua crudezza, che il nostro intervento - sul numero scorso de Il Pontino nuovo, circa la lotta a COVID 19 - suscitasse polemiche; ma non è il caso di dar loro troppa importanza e quando il morbo ancora preme sopra il nostro petto.
Riconosciamo, comunque, che potevamo risparmiarci l’espressione troppo forte - diciamo sopra le righe - che il far chiasso da balconi e terrazze fosse come un masturbarsi collettivo; rimane valido, però, tutto il resto; tra l’altro, che non si combatte un nemico subdolo e pericolosissimo esorcizzando la paura con simili atteggiamenti e fatti; che, per certi versi, simili atteggiamenti e fatti finiscono con l’agevolare la diffusione del morbo. Abbiamo assistito a uomini e donne, a gruppi, da terrazzi e finestre, strillare e cantare gli uni rivolti verso gli altri; la distanza fra i diversi ambienti, è vero, superava in molti casi il termine del metro e mezzo, ma c’era pure una gagliarda brezza e, così, le goccioline di saliva, che uscivano a mitraglia dalla bocca degli uni, saran finite in abbondanza velocemente e direttamente in quella degli altri. Ditemi se questo fosse il modo migliore per combattere corona virus!
Cantare e ballare in una situazione così tragica, così drammatica, l’abbiamo ritenuto non dignitoso e assai sconveniente. A coloro che ancora si ostinano a non volerlo capire, ribadiamo l’inopportunità attraverso la metafora dei versi splendidi e dolorosi della lirica “Alle fronde dei salici” del Premio Nobel Salvatore Quasimodo:
E come potevano noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
E cioè, parafrasando e rapportando i versi al nostro caso: come, come potevamo noi cantare, con il piede del terribile COVID 19 sopra il nostro cuore? i morti ammonticchiati nelle camere degli ospedali? la madre che andava incontro al giovane figlio chiuso in una bara? i mariti, le mogli, i figli, i fratelli, le sorelle che assistevano impotenti allo sfilare dei camion dell’esercito nel portarsi via, una e più volte, centinaia e centinaia di bare con dentro i corpi dei congiunti per essere cremati? Mentre l’Italia e il mondo vivevano - è vivono ancora, purtroppo! - una pandemia da tempi antichi di peste e colera, come, come s’è potuto ritenere efficace, caritatevole, sobrio, opportuno gioire e schiamazzare? Come, come non rendersi conto che son diversi e son da rispettare i tempi della gioia e del dolore? Non si può continuare a snaturare tutto, a capovolgere ogni cosa; anche per questo abbiamo alzato forte il grido a cambiar registro partendo dall’interno di noi stessi. No, non si può cantare, né ballare tango e walzer quando il nostro animo e ridotto a brandelli appesi a dolorare al triste vento; non è così che si dimostrano dignità e coraggio.
E veniamo all’esposizione del tricolore.
L’essere Italiani, non consiste, per esempio, nello sventolare la bandiera e nel fregarsene di leggi e decreti; nello sventolare la bandiera e abbandonare i luoghi di residenza per andare a infettarne altri ritenuti al momento meno esposti; nello sventolare la bandiera e riunirsi in gruppi, al chiuso o all’aperto, col rischio di trasmettersi il virus e portarlo, poi, all’interno delle proprie case; nello sventolare la bandiera e speculare sulle disgrazie per lucrare o per fare sleale concorrenza. Ma, essere Italiani, non significa neppure sventolare il tricolore ed essere incapaci a governare e dirigere (non c’è unità, tra l’altro; ogni Regione e persino i comuni van per conto proprio); sventolare il tricolore ed emanare quasi ogni giorno decreti l’uno più cervellotico dell’altro (ciò che, però, non autorizza la disubbidienza quasi totale e il comportamento anarcoide di ciascuno di noi). Essere Italiani è, sì, riconoscerci nel tricolore; è, sì, sventolarlo, ma solo dopo esserci esaminata onestamente la coscienza. Esporlo semplicemente ai balconi, magari per esorcizzare la paura o in occasione di un avvenimento sportivo, non significa veramente amarlo, non vuol dire possederlo nel cuore.
Domenico Defelice