Dal libro “Pomezia. Origini – Genti - Personaggi” del professor Antonio Sessa edito dall’Angelo Capriotti Editore nel 2010
La guerra lasciò solo distruzioni
Il 4 giugno 1944 gli americani entrarono in Roma e subito dopo incominciò il triste rientro degli sfollati; anche se tutto il nostro territorio non subì lo stesso martirio di Aprilia, completamente distrutta, quattro mesi di fronte lasciarono pure profonde ferite. I tedeschi, in ritirata, distrussero la “Torre del Vajanico”, la torre serbatoio di Pomezia, la torre di Pratica, disseminando di mine tutta la fascia costiera e le strade di transito.
“Quando tornammo - ricorda Silvio Bello - il bellissimo viale alberato che fiancheggiava la strada che portava a Pratica era stato distrutto dai tedeschi. Le piante erano di traverso sulla strada, per ostacolare il transito agli alleati; per cingere il più piccolo di quegli alberi occorrevano le braccia di almeno due persone. L’entrata del borgo era ostruita dalle macerie della torre; la chiesa e le case erano danneggiate”.
“l danni furono vasti e diffusi dappertutto - rammenta Don Benvenuto Cucuzza -. Io arrivai a Pratica nel giugno del 1944. Venivo da Nettuno con un carretto tirato da un cavallo e portavo con me lo stretto necessario; le strade erano tutte gravemente danneggiate. Dal bivio Caronti fui costretto a continuare a piedi, perché la strada era interrotta da quel punto.
Vissi per 14 mesi in un piccolo locale con un cucinino, in quel borgo ove esistevano solo mucchi di macerie. Nell’estate di quell’anno, incurante del pericolo, in quanto era noto che tutta la zona era minata, Monsignor Montini, il futuro Papa Paolo VI, fu uno dei primi a soccorrere le nostre popolazioni; giunse con una macchina del Vaticano e distribuì alle parrocchie generi alimentari, medicinali e coperte. Allora Monsignor Montini era alla Segreteria di Stato a Roma”.
“Anche ad Ardea - ricorda Antonio Faticanti - il Palazzo Sforza-Cesarini fu semidistrutto. Il palazzo in piazza, chiamalo “Granarone” perché vi si stivava il grano, risultò quasi tutto distrutto; il “Palazzaccio” in piazza Belvedere venne gravemente danneggiato. La litoranea era tutta minata e il Fosso della Moletta era pieno di soldati tedeschi morti. In quei primi anni del dopoguerra fu dura per tutti; mio padre Filippo Faticanti, fattore di Angelo D Antoni nella tenuta di Campo Iemini, cercò di aiutare tante famiglie ritornate nelle proprie abitazioni che non avevano di che mangiare, offrendo loro lavoro.
Per dimostrare le necessità di quel periodo, ricordo solo che molti cercavano di sopravvivere vendendo il ferro vecchio dei residui bellici; e purtroppo più di uno ci rimise un braccio o addirittura perse la vita”.
“Sfollato come tanti a Roma - ricorda Dario Blancodini - fui uno dei primi a rientrare a Pomezia, il 5 giugno 1944, il giorno dopo che gli alleati entrarono a Roma. Pomezia non aveva avuto danni irreparabili; ma la torre comunale abbattuta dai tedeschi riempiva con le sue macerie la piazza. All’inizio mi sistemai nel podere di mio suocero a via Tre Cannelle, poi mi trasferii dentro Pomezia”.
Anche le campagne non furono risparmiate. I collegamenti erano pressoché inesistenti, i raccolti distrutti, le poche bestie razziate dai tedeschi in fuga; ovunque c’erano mine e bombe di aerei o di mortai inesplosi, mentre molte case coloniche risultavano danneggiate. Erano state anche distrutte tutte le dighe che raccoglievano e contenevano le acque e le distribuivano nei canali di bonifica, per cui una vastissima zona dell’Agro, più a sud di Pomezia, fu completamente sommersa. Tanta rovina portò a una immediata ricomparsa della malaria, che venne comunque debellata poco dopo con la risistemazione delle opere di incanalamento delle acque e con l’uso del D.D.T. portato dagli americani. In poco tempo il piccolo centro appena nato si riempì di sfollati che si sistemarono in tutti gli edifici pubblici; casa comunale, ex casa del fascio, ufficio postale, scuola. Nelle case coloniche non danneggiate coabitavano più famiglie; molti si sistemarono nelle stalle. In quell’estate del 1944, ricordano i ragazzini di allora, dopo un temporale, uscivano dal terreno brandelli di stoffa che indicavano la presenza di un cadavere di soldato tedesco nella cunetta.
Ormai avevano imparato i posti e, sotto canna, in bicicletta stavano bene attenti a passare da un lato all’altro della strada per evitare di passare sopra i cadaveri.
La signorina Rosina Pietropaoli ricorda che nel suo casale alla Solforata vi era, durante lo sbarco alleato, un comando tedesco; quando furono costretti alla fuga, lasciarono cinque soldati uccisi dai bombardamenti. Al suo rientro al casale, la signorina Pietropaoli provvide con l’aiuto dei suoi coloni a ricomporre subito i poveri resti in casse di legno comprate a Pratica; seppellì i cadaveri nella tenuta, formando un piccolo cimitero. Poco dopo i corpi furono traslati nel cimitero di guerra tedesco di Pomezia.
A.S.