che Checco avversa, contrasta, offende senza riguardi il “nostro”.
L’ACERBA
Lo fa con l’Acerba, un poema didattico di quasi 5.000 versi interrotto soltanto perché condotto a morte. Cecco parla chiaro e non si risparmia di deridere le gratuite invenzioni dantesche:
Qui non si canta al modo delle rane,
qui non si canta al modo del poeta
che finge immaginando cose vane.
Ma qui risplende e luce ogni natura
che a chi intende fa la mente lieta.
Qui non si gira per la selva oscura.
Qui non veggio Paulo né Francesca
De li Manfredi non veggio Alberigo,
che diè l’amari fructi ne la dolce esca.
Lui persegue la verità scientifica, non come la Comedìa che è la negazione della Scienza vera.
Lasso le ciance e torno su nel vero,
le fabule me fur sempre nimiche.
Quello di cui parliamo è una sorta di compendio enciclopedico, un manuale scientifico del quale è difficile dire se sia una riproposizione del De Rerum Natura di Lucrezio o un’anticipazione dell’Encyclopédie Francaise del Settecento. Ma l’ascolano non poteva conoscere Lucrezio la cui opera in quegli anni si era perduta né tanto meno l’Encyclopedie che era di là da venire. In questo monumentale lavoro egli dà sfogo a tutto il suo naturalismo descrivendo con sagacia e passione eclissi, comete, pioggia, venti, grandine, tuoni, fulmini, addentrandosi nella fisica, nella biologia, nella psicologia, dappertutto. Il suo realismo lo portò a valutazioni schiette e originali che finirono per procurargli un mare di guai. Non fu gradito alla Chiesa e all’Inquisizione il cui sport preferito in quegli anni era, come sappiamo, perseguitare, torturare e mettere al rogo chi non la pensava come loro.
IL ROGO
Finì appunto sul rogo a Firenze nel 1327 accusato di eresia. Dovremmo ricordarcene ogni tanto di cosa è stata capace la Chiesa nei secoli e con quali mezzi ha “condotto” l’umanità verso la fede. Chi sa se, nel 2127 tra sei anni, al ricorrere dell’anniversario della sua morte, ci ricorderemo almeno un poco della sua testimonianza di scienziato e di uomo dal libero pensiero. Di sicuro se ne ricorderanno ad Ascoli Piceno dove in Piazza Giacomo Matteotti troneggia la sua statua in bronzo. Noi italici non possedemmo neppure la dignità di dedicargli una statua. Ci dovettero pensare gli ascolani emigrati negli Stati Uniti a scolpirla nel 1921 e farne poi dono alla loro città lontana.
LA COMPLESSA STORIA
DELLA RUSSIA/2
di Francesco Bonanni
SECONDA FASE: XVI secolo
Ivan IV (1530-1584)
il grande protagonista
Questo Sovrano fu denominato “Il Temibile” e non il “Terribile” come spesso si legge nei testi di Storia a causa di una cattiva traduzione dalla lingua russa.
Il Popolo russo gli attribuì l’appellativo di “Groznyi”in quanto accanito e feroce avversario della classe dei Boiardi, la rozza e turbolenta Feudalità russa. Il termine Groznyi deriva da“Groza” che sta ad indicare sia la “tempesta” che la “minaccia”, per cui dalla traslitterazione dal cirillico al latino è più corretto tradurlo in “Temibile”. Ivan IV fu il vero fondatore dello Stato russo. Nel 1561si attribuì il titolo di Zar di Tutte le Russiev (zar dal latino Caesar) dopo esser riuscito a sottrarre il potere ai Boiardi, i membri dell’alta aristocrazia feudale.Titolo successivamente approvato con Decreto del Patriarca di Costantinopoli. Intorno alla metà del XVI secolo Ivan IV riuscì a respingere i Mongoli sia verso Est che verso Sud raggiungendo così gli Urali ad Oriente ed il Mar Caspio e il Caucaso a Sud. Nacque quindi l’attribuzione di “Terza Roma” riferita ad un Impero organizzato con confini relativamente difendibili. Difatti con il controllo delle pendici settentrionali del Caucaso Ivan si assicurò la difesa da eventuali invasioni dalla Persia e dall’Asia Minore e con la conquista di territori vasti milioni di Kmpoté costituire grandi valide “Zone Cuscinetto”. Anche se questi territori non potevano in assoluto garantire da una eventuale invasione, tuttavia consentivano di bloccare il nemico con una tattica di logoramento e di poter attaccare le sue linee di rifornimento. Ma in queste zone di confine si presentava la necessità di mantenere un continuo controllo sulle Popolazioni residenti. Il Governo Centrale impose una politica autoritaria se non addirittura totalitaria indirizzata a reprimere qualsiasi eventuali tentatavi di ribellione. Controllo che conseguentemente comportava la presenza di un considerevole esercito permanente a sua volta supportato da un un’efficiente Rete di Intelligence.
TERZA FASE: XVIII secolo
Pietro il Grande (1672- 1725) e
Caterina II (1729-1796)
Sotto il loro dominio, lo Stato russo si estese verso Occidente con i quali conquistarono l’Ucraina, spingendosi fino ai Carpazi e incorporando i Territori Baltici. Il Confine del Nord-Ovest si sposta sul Mar Baltico.
Con tali espansioni territoriali lo Stato Russo, pur non riuscendo ad ottenere confini assolutamente difendibili, trasformò alcuni “nemici esterni”, quali i Cosacchi ed i Baltici, in “nemici interni”.
(Per la prima fase introduttiva vedi
Il Litorale precedente di metà marzo)
SCRITTURA AL FEMMINILE
Rubrica aperta a tutti
QUERELLE DES FEMMES
La misoginia
viene da lontano
di Ivana Moser
La società della Roma antica, come quella greca, in particolare quella ateniese, è di stampo patriarcale, strutturata in modo tale da affermare il primato assoluto dell’elemento maschile. Alla donna spetta un ruolo subalterno, strettamente legato alla sua natura, al diffuso pregiudizio (ben presto ratificato a livello giuridico) di una sua naturale infirmitas o imbecillitas mentis (debolezza, stupidità intellettuale),traducibile anche in mancanza di una corretta capacità di giudizio o incapacità di pensare in maniera logica.
Età arcaica
Si legge nel codice legale più antico di Roma, Le leggi delle XII tavole (451-450 a. C.):Gli antichi vollero che le donne, anche se di età matura, fossero soggette a tutela, a causa della loro naturale leggerezza (volubilità) d’animo; eccettuate le vergini vestali, che vollero fossero libere (queste ultime erano però sotto la tutela del pontefice massimo). La donna quindi, del tutto esclusa da ruoli di rilievo nella società romana, dove soltanto l’uomo godeva dei diritti politici, anche per esercitare i diritti civili (sposarsi, ereditare, fare testamento) aveva bisogno del consenso di un tutore, in primis il padre, poi il marito e, all’eventuale morte del marito, il parente maschio più prossimo. Per comprendere maggiormente il modo in cui era concepita la condizione femminile, è utile anche un richiamo all’onomastica romana: l’uomo aveva tre nomi, la donna uno. Nel cerimoniale della lustratio, cerimonia di purificazione, alla neonata veniva dato un nome, il suo vero praenomen, gelosamente tenuto segreto e custodito però esclusivamente nell’intimità familiare. Al di fuori dell’ambiente domestico, quel nome veniva sostituito da un cognomen, quello della gens paterna. In questo modo la donna risultava solo frazione passiva e anonima di un gruppo familiare. Destinata ad un matrimonio precocissimo (verso i dodici, quattordici anni), in genere inteso come un vincolo contrattuale o politico tra famiglie, la fanciulla romana passava dalla potestà del padre a quella altrettanto opprimente e severa del marito. E quando si parla di potestà significa che chi la esercitava aveva diritto di vita e di morte.
Matrona romana
Il comportamento delle donne “rispettabili” doveva adeguarsi a un’ideale femminile molto preciso, quello della matrona, moglie e madre, che si doveva realizzare nell’adempimento dei suoi doveri familiari: educare i figli secondo il mosmaiorum, il nucleo della morale tradizionale della civiltà romana, essere lanifica (dedita ai lavori della tessitura e filatura), casta (devota ai vincoli familiari), pia (dedita alle pratiche del culto e al rispetto del costume degli antenati), domiseda (che sta in casa), univira (legata per tutta la vita a un solo uomo) anche se vedova, onesta, obbediente, silenziosa e operosa. La donna in epoca arcaica conduceva la maggior parte della sua esistenza tra le mura domestiche, ma, a differenza dei Greci, i Romani non consideravano le donne semplici strumenti di riproduzione, perché esse erano strumento fondamentale di trasmissione di una cultura, toccava infatti a loro educare i figli e prepararli al divenire cives romani.
Età repubblicana
A partire dall’età repubblicana alla donna romana, a differenza di quella greca, era permesso uscire, fare acquisti, assistere agli spettacoli del circo e del teatro, partecipare ai banchetti accanto all’uomo, anche se seduta e non sdraiata, per allontanarsene, però, al momento della commissatio, cioè quando la cena diveniva eccessivamente animata. Alle donne era comunque vietato il consumo di vino, che avrebbe potuto annebbiare la loro mente e indurle a commettere adulterio. In entrambi i casi il marito aveva il diritto di uccidere la moglie. La donna poteva essere controllata attraverso lo ius osculi, cioè il diritto di bacio, che consisteva nel diritto dei maschi di famiglia, non solo del marito, di “saggiarne” l’alito per controllare l’eventuale suo misfatto. Nel corso dei secoli le donne cercarono di far sentire la loro voce: uno degli eventi più antichi e significativi si svolse nel 215 a.C., quando un gruppo molto numeroso di donne invase le piazze romane per protestare animatamente contro la Lex Oppia, una legge che limitava il lusso femminile (abbigliamento e sfoggio di gioielli). Il censore Catone reagì all’episodio affermando che (le donne) …non appena cominciassero ad essere pari, saranno superiori e più oltre con la sua abituale misoginia: Ciò che vogliono veramente è la libertà senza restrizioni; o, per dirla tutta, il libertinaggio. Ma se vincono adesso, cosa le tratterrà in futuro? Questa legge venne abolita nel 195 a. C.
Principato e età imperiale
A partire dal I sec. a.C., dall’età augustea, si assiste ad un cambiamento, dettato non da un cambio di mentalità ma da una situazione sociale che senza un maggior coinvolgimento delle donne non avrebbe trovato soluzione (incentivare matrimoni e nascite) e che sfocia in un complesso di norme che mutano l’assetto precostituito. Fra queste il ridimensionamento della patria potestà e del potere dei mariti sulle mogli, la possibilità di disporre da parte delle donne di propri beni (dote della famiglia di origine), di poter divorziare, di potersi applicare allo studio, di partecipare alla vita politica familiare, assegnando loro un ruolo da mediatrici, e di scegliere un tutore e ripudiare quello imposto. Quest’ultima norma suscitò le critiche di alcuni autori conservatori, come Cicerone: I nostri antenati stabilirono che le donne, per la loro debolezza di giudizio, fossero sottomesse alla potestà dei tutori, ma i giuristi hanno inventato una specie di tutore sottomesso alla potestà delle donne.
Se è indiscutibile il cambiamento della condizione femminile nella società romana, è però importante sottolineare come questo cambiamento fosse comunque riservato, o quantomeno circoscritto alla nobilitas, al ceto aristocratico. Risulta quindi eccessivo sostenere che la mutata condizione femminile fosse riuscita a modificare la società, si tratta di un’evoluzione legata a un preciso ambito sociale. E le donne continueranno ad essere oggetto di critiche, frutto di una mentalità misogina che accomuna i Romani ai Greci.
Letteratura
Con l’introduzione delle nuove norme le donne diventano spesso oggetto di critiche feroci da un punto di vista culturale e la critica riguarda in particolare i costumi sessuali. La casistica che emerge dagli Epigrammi di Marziale (38 o 41 – 104) è una rassegna lucidamente spietata di tutti i vizi imputabili alle donne: infedeltà, intemperanza, altezzosità, insolenza, dispotismo, vanità e tanti altri ancora, diffondendo il clichè della donna affamata di sesso o che insegue la perduta giovinezza. Ironizzando con tremenda perfidia, il poeta mette sotto accusa una lunghissima serie di figure femminili. Con Giovenale (tra il 50 e il 60 – dopo il 127) la denuncia contro le donne tocca la punta più aspra. La sesta delle sue sedici satire costituisce un attacco veemente contro i vizi delle donne, tutte corrotte, nobili o di umili origini che siano e appare un vero e proprio “manifesto” della misoginia antica. Quello che veramente irrita e disturba Giovenale è lo spazio di libertà conquistato dalla donna a scapito e per colpa di un maschio sempre più debole e “femminilizzato”. Giovenale esprime il suo disprezzo verso le mogli infedeli o impudiche ma allo stesso modo anche verso le donne che studiano, che viaggiano, che fanno sport, che vanno a teatro o assistono ai giochi del circo o che si occupano di politica. All’immoralità della donna del suo tempo Giovenale contrappone i sani costumi del tempo antico, quando la donna era in tutto soggetta al marito e domiseda. Gli atteggiamenti di questi autori, pur tra esagerazioni e distorsioni, riflettono l’opinione comune del loro tempo, nel quale si assisteva al mutamento dei costumi con sospetto e forse si cercava nella misoginia la confortante certezza con cui esorcizzare la presenza sempre più invadente delle donne in ambiti prima esclusivamente maschili.