Sembra tutto chiaro nella notte
Nel bagliore dell'alba
la serenità svanisce
nello scoppio di una bomba
Polvere chiara cade dal cielo
Il giorno dell'orrore
dentro gli occhi
Seduta sulle macerie
le mani sporche
pensi di morire
Ma sei ancora viva
Rita Salimbeni
Ardea, 11 novembre 2024
PACE GIUSTA?
di Francesco Bonanni
In questi ultimi tempi, nell’attesa di una conclusione della Guerra in Ucraina, nei vari dibattiti televisivi e negli articoli sui giornali, si sente sempre più auspicare la fine di quel conflitto con “una pace giusta”.
Ma cosa significa pace giusta?
Se la pace è la naturale conclusione di un conflitto e se consideriamo che non esiste nessuna guerra giusta come si può concepire una pace giusta se questa è l’ultima fase della stessa guerra ingiusta?
Se invece manichealmente si parte dal principio che ci sono guerre giuste e guerre ingiuste allora è concepibile sperare in una pace giusta nel primo caso e temere di una pace ingiusta nel secondo caso.
Ma chi può giudicare se una guerra è giusta o ingiusta?
Chi provoca una guerra, solo per il fatto di averla scatenata, ovviamente la ritiene giusta mentre chi la subisce ed è costretto a difendersi giustamente la considera ingiusta.
Ma a parte queste considerazioni soggettive, la pace in una visione realistica può essere solo di due tipi: quella imposta dal vincitore sul vinto che non è più in grado, non solo di attaccare, ma addirittura di difendersi (una sorta di Pax Romana) o quella di compromesso tra i due protagonisti in lotta che ritengono conveniente, in luogo degli oneri imposti dallo stato di guerra, trovare un accordo accettabile da entrambi.
In entrambi i casi come si fa a parlare di pace giusta?
Semmai, in termini realistici e antiretorici, si può parlare di “pace duratura”, nel significato che non contenga pericolosamente i germi di una eventuale possibile futura velleità di rivincita da parte di una o addirittura di tutte e due le parti, preludio di un probabile successivo nuovo conflitto.
La Storia, purtroppo, ci offre un ampio ventaglio di numerose situazioni del genere.
Il concetto di “giusto” appartiene al campo della “categoria morale” ma i rapporti tra gli Stati non sono regolati dalla morale, come certa diffusa ingannevole retorica vorrebbe accreditare, ma nel migliore dei casi dalle “relazioni di convenienza” e in quelli peggiori dai “rapporti di forza”.
Questo non è da considerarsi frutto di un arido cinismo ma solo di un onesto realismo.
Le Ideologie di ogni genere sia politiche che religiose, affidandosi alla loro subdola retorica, sostengono sempre posizioni pregiudiziali, ammantate da apparente giustizia, che conducono fatalmente solo a situazioni di netta contrapposizione, a loro volta foriere di sicure aspre conflittualità con la pretesa di concluderle poi con una pace giusta.
Le guerre nascono sempre dalla intolleranza, mai dal desiderio di giustizia. Solo chi le subisce le concepisce come ingiuste, non chi le provoca.
Secondo Karl von Clausewitz la guerra non è altro che la prosecuzione della Politica Internazionale gestita con altri mezzi: le armi in sostituzione della pacifica attività diplomatica. Definizione che all’impronta può apparire cinica e disumana ma ad una riflessione più meditata, nel suo crudo realismo, ci indica le vere remote radici di ogni conflitto.
Difatti qualsiasi politica aggressiva, pur sostenuta da alcune valide ragioni, ha l’effetto di creare un clima sempre più violento fino a sfociare in un vero e proprio conflitto armato per cui diventa arduo stabilire chi è il vero aggressore: se è colui che ha dato origine allo stesso conflitto o invece chi, pur apparendo un aggredito, in effetti ne ha creato le condizioni.
Per questo la Diplomazia con tutti i suoi ipocriti aspetti ha l’importante funzione di derimere qualsiasi controversia internazionale in modo pacifico evitando di ricorrere all’uso delle armi.
Con l’avvento dell’Arma Nucleare si è sperato per lo meno di ridurre notevolmente il pericolo di un eventuale scoppio di grandi conflitti armati, come sono state le due devastanti guerre mondiali dello scorso secolo, ma non per questo la Diplomazia ha cessato la sua funzione. Difatti non solo ha sempre più allontanato il pericolo di scoppio di grandi conflitti ma ha avuto il grande merito di contribuire, se non a evitare, perlomeno a ridurre quelli di dimensioni regionali e talvolta addirittura a comporre le controversie ricorrendo a “ex ante” pacifiche soluzioni concordate in luogo di “ex post” dolorosi trattati di pace giusti o ingiusti che siano.
IL FIGLIOL PRODIGO
testo ed illustrazione di Vincenzo Corsi
Un’antica parabola del Sufismo islamico dal titolo “La porta del Paradiso” narra di un uomo virtuoso il cui unico difetto era la disattenzione. Dopo la sua morte egli si fermò davanti la porta del Paradiso e nell’istante in cui questa si aprì, ebbe un calo dell’attenzione e perse l’occasione per entrarvi.
Nella parabola “I figli avidi”, appartenente sempre alla stessa tradizione, un padre per istruire i figli all’onestà e al lavoro, dice loro che c’è un tesoro nel campo e li invita a scavare. Mossi da questa illusione i figli cominciano a scavare, dissodano così il terreno e di conseguenza fanno una buona semina e un buon raccolto. Solo così capiscono il vero e prezioso insegnamento del padre, ovvero il valore del lavoro onesto.
In una terza parabola Sufi, “I ciechi e l’elefante”, un sovrano che possiede un elefante, lo fa toccare alla popolazione di ciechi del suo villaggio per offrirne la conoscenza. Ognuno di questi ciechi ne tocca una parte e si illude di avere una percezione che ne rappresenti la totalità. In questo modo ognuno ha una rappresentazione parziale della realtà.
La possibilità di fare il bene “arriva come un ladro” e se non siamo pronti a coglierla questa ci sfugge clamorosamente per sempre.
“Il figliol prodigo” ritorna a casa improvvisamente e il padre si fa trovare pronto ed attento ad accoglierlo. A differenza dell’uomo della prima parabola Sufi, il padre coglie il momento di apertura della porta del Paradiso e vi entra. Dice all’altro figlio di uccidere la bestia più grande per fare una festa. Questo figlio protesta e non capisce, ma il padre lo sta aiutando a scavare per coltivare la pianta benefica del perdono come il padre della seconda parabola Sufi vuole educare i figli all’onestà, in quel caso tramite l’espediente del tesoro. L’Obbedienza in entrambi i casi è una virtù suprema. Tutti i personaggi del figliol prodigo hanno una visione parziale della realtà come insegna la parabola dei ciechi citata. L’immenso bene che coinvolge tutti gli attori del fatto viene mostrato loro solo negli aspetti parziali e il grande amore che ne deriva si può riassumere in una parola che possiamo pronunciare solo balbettando: Mistero.