Il Litorale • 21/2019
Pagina 33 di 56
ANNO XIX - N° 21 - 1/15 DICEMBRE 2019 Il Litorale Pag. 33
S i m p o s i o
LIBERO INCONTRO ARTISTICO CULTURALE
ELKE LASKER-SCHÜLER: «Le poesie avvengo-
no in me, si compongono da sole in me … un poeta
non ha mai intenzioni quando scrive poesie… sente
solo la necessità di scriverle… ascoltando il suo ange-
lo… un poeta è una pianta, non pensa al frutto e a co-
sa ne faranno gli uomini» Tedesca o ebrea? Secondo
Schalom Ben-Chorin fu la più grande poetessa espres-
sa dall'ebraismo, per Karl Kraus fu «il più forte e im-
pervio fenomeno lirico della Germania moderna», e
per Gottfried Benn fu la più grande poetessa che la
Germania avesse mai avuto. (Wikipedia) Ma… se il
poeta può sentirsi uno o l’altro, la sua poesia non può
avere confini.
ELSE LASKER-SCHÜLER (Elberfeld 1869 – Ge-
rusalemme 1945) scrittrice tedesca. Di famiglia ebrai-
ca, abbandonò la Germania nel 1933 e dopo alcuni
anni di peregrinazioni si stabilì a Gerusalemme. Don-
na impetuosa e testarda, eccessiva, eccentrica, non
bella ma dal fascino misterioso, diceva di sentirsi più
un monello di strada che un profeta, d’essere poetessa
e spaventapasse-
ri insieme. At-
traversò la vita
da zingara vaga-
bonda, sedendo
ai tavolini dei
caffè, da bohé-
mienne autenti-
ca, senza curarsi
del giudizio al-
trui o dei biso-
gni materiali se
non di chi era
più povero di
lei.
Molte sue poesie
eternano il senti-
mento d’amore,
il suo amore non
corrisposto per
Gottfried Benn,
poeta, scrittore e
saggista tedesco,
da lei sopranno-
minato “Il bar-
baro”.
Domenica 1° dicembre - ore 17,00
SCRITTURA AL FEMMINILE
Rubrica aperta a tutti
MORIRE A VENEZIA
E se tornassi
tra le brume
della mia laguna?
A trascorrere
la mia ultima età
con l’età di Venezia,
sfiancata, alla fine.
Passando, esule,
sopra vecchi ponti
tra acque maleodoranti
e vecchie case
d’antico sestiere
da cui tutto è fuggito,
vorrei ritrovarmi
seduto sui pozzi
delle corti e dei campi
ad ascoltare il silenzio.
Io so della tua decadenza
e tu sai di me
(che ho superato
gli ultimi confini).
Sarà una colpa
se, essendo vissuti lontano,
assieme vogliamo morire?
Potrei anche tornare.
Adesso
che la vita è un tramonto
non m’importa più
se le nubi di Marghera
continuano tetre
ad oscurare il sole.
S.B.
AL BARBARO
Giaccio nelle notti
sopra il tuo volto.
Sulla steppa del tuo corpo
pianto cedri e mandorli.
Instancabile frugo nel tuo petto
cercando le dorate gioie del faraone.
Ma pesanti sono le tue labbra,
impenetrabili ai miei prodigi.
Solleva orsù i tuoi cieli di neve
dall’ anima mia –
I tuoi sogni di diamante
mi tagliano le vene.
Io sono Giuseppe e porto una cintura di dol-
cezza
attorno alla mia pelle dipinta.
Ti colma di felicità il mormorare spaurito
delle mie conchiglie.
Ma il tuo cuore non lascia penetrare più alcun
mare.
Oh tu!
Traduzione di Ivana Moser
parte all’altra delle vaste pozzanghere i cittadini, uno
per uno, attaccati sulla nostra groppa. Tradizione an-
che questa, vecchia come i muri di questa città. Im-
piegati, massaie, camerieri, tutta gente frettolosa e in-
freddolita che poi non aveva alcuna difficoltà a rila-
sciare una piccola mancia: venti lire, cinquanta lire
qualche volta. Mica male. Siamo studenti in fin dei
conti! Il gioco durava quel che durava. Puntualmente,
poco prima delle nove, eccoti il solito vigile urbano
col suo fischietto e con un gruppetto di gente più
grande, adulti insomma. I disoccupati del Comune, si
diceva. “Via tutti, lazzaroni, adesso tocca a loro!”.
Portavano i loro muscoli e le passerelle finalmente,
per mettere i trampoli alla nostra città. Noi, a questo
punto, ci ritiravamo in buon ordine, la festa era finita.
D'altronde adesso avevamo pure i soldi per
un caffelatte e per scaldarci in qualche osteria. Più tar-
di si rientrava nella nostra isola che, per sua fortuna,
non soffriva mai dell’acqua alta. E chissà che nel po-
meriggio non ci si ritrovasse, per avventura o per dis-
grazia, a tentare la traduzione di un brano di Cicerone
o di un frammento di Platone.
P.S. Adesso che gli anni sono passati e che sono lonta-
no dalla mia città da oltre mezzo secolo, ora che la
vedo ancora così sofferente, vulnerabile, incapace di
difendersi, altro non mi sento in animo che rivolgerle
qualche pensiero.
Ho portato con me poche cose, il tesserino di ricono-
scimento (art. 17 con il quale divento una persona au-
torizzata dal magistrato di sorveglianza a svolgere
all’interno del carcere un attività specifica) e qualche
penna da prestare ai parenti qualora ne avessero biso-
gno.
Attraverso il piazzale deserto sul quale si affacciano
SALUTI E AUGURI
PER LA PAUSA NATALIZIA
le tre palazzine adibite ad uffici dell’amministrazione
penitenziaria ed imbocco il portoncino della sala di
attesa immersa in un silenzio irreale.
Sono contenta, tra poco incontro i bambini, i figli dei
detenuti.
Mi sento serena con una grande voglia di ascoltare o
di aiutare i familiari a compilare i moduli (in tanti non
sanno scrivere) da presentare allo sportello della poli-
zia penitenziaria.
Lo stanzone è di circa 45 mq a forma di elle, su un la-
to addossato ad una parete c’è una cassettiera porta
oggetti in cui i familiari, compresi i bambini, devono
deporre anellini, collanine, orecchini e orologi prima
di entrare nella sala colloqui. Dal lato opposto si scor-
ge un alto finestrone con le grate. Al centro della stan-
za tre file di sediolini di plastica fissati al pavimento,
in tutto sedici, qualcuno è pure rotto. Due grossi dis-
tributori di bibite, merendine e caffè fiancheggiano i
gabinetti; al soffitto una ventola gira a bassa velocità.
Sull’altro lato c’è l’ingresso per il controllo dei pacchi
e per accedere alla sala dei colloqui.
Stendo su un piccolo tavolino una tovaglietta a qua-
dretti bianca e rosa, ci poggio dei pastelli, delle mati-
te, qualche pennarello, fogli bianchi ed altri da colora-
re, qualche libro.
Non c’è spazio per altro.
Noi volontari abbiamo fatto più volte richiesta alla di-
rezione per un tavolino più grande in modo da poter
farci stare qualche
bambino in più, ma niente da fare, la proposta è stata
inascoltata.
Tutto è pronto sul tavolino apparecchiato. Guardo l’o-
rologio da polso: sono le otto e trenta. Stanno per arri-
vare.
Mi affaccio dal portoncino, l’afa già si fa sentire.
In lontananza vedo un gruppo di persone attraversare
il piazzale assolato con passo svelto, sono carichi di
bustoni; alcuni portano per mano bambini piccoli, al-
tri spingono carrozzine con dentro un neonato.
Appena entrano nella sala di attesa posano i pacchi a
terra, molti si siedono, altri si mettono in fila allo
sportello per presentare i documenti d’identità ed i
moduli di autocertificazione (nel caso di primi ingres-
si già autorizzati). Le attese sono lunghe, anche due
ore.
Queste persone pur non dovendo scontare alcuna pena
sono travolte dalle tante regole del carcere, non c’è
scelta per loro, si adattano se vogliono rivedere i pro-
pri cari, lo fanno perché gli vogliono bene.
Tempo fa, un detenuto mi disse: «Sai, io sono più for-
tunato di te perché qui ho il tempo di pensare, di chie-
dermi chi mi vuole bene e chi no. Lo so quando vedo
chi mi viene a trovare».
Ora la sala d’attesa è rumorosa, si sentono le urla de-
gli agenti che chiamano altri o i cognomi dei familia-
ri, i pianti dei bambini assonnati, le grida delle donne
allo sportello blindato per farsi sentire.
Questo è il momento in cui non bisogna perdere la
calma, mi avvicino ai bambini e chiedo, indicando il
tavolino: “vi va di disegnare?” Alcuni dopo aver dato
una sbirciata annuiscono, altri tirano dritto e vanno al-
le macchinette a fare colazione con patatine in busta o
varie merendine.
Dopo le ultime disposizioni dell’ispettore della peni-
tenziaria, i bambini non possono più regalare un dise-
gno al papà o al nonno. Non possono.
«Potete disegnare o colorare un disegno già fatto, op-
pure scrivere una frase per il vostro papà, ma ciò che
è più importante è mettere la firma come fanno i gran-
di artisti sui quadri. Poi, se volete, li attacchiamo alla
bacheca». Propongo come alternativa. La maggioran-
za mi sorride e così li appendiamo, altri li ripongono
nella cassettiera per riprenderli prima di andare a ca-
sa.
Appena sono chiamati dalle mamme lasciano tutto sul
tavolino e corrono all’ingresso per essere perquisiti da
agenti in divisa. Sì avete capito bene.
Eppure sappiamo che la Convenzione Internazionale
sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza sancisce
delle regole ben precise per la tutela del minore anche
in questi casi, ma la nostra legislazione, i regolamenti
e sopratutto la prassi penitenziaria sembra non rispet-
tare questo principio.
Penso a tutte quelle donne che passano ore ai fornelli
per preparare dei manicaretti e che in pochi secondi,
ai controlli dei pacchi, gli agenti disfano senza riguar-
do con i coltelli per assicurarsi che dentro non ci sia
niente di illecito. Penso a tutto ciò che non si può por-
tare ai detenuti, carne cotta, alcuni tipi di formaggio, i
limoni, no ai frutti di mare, no ai biscotti con la glas-
sa: a poco serve chiedersi perché. I parenti non posso-
no indossare giubbotti o cappotti lunghi.
È inutile pensare o capirne la logica.
Guardo l’orologio, si sono fatte le 12, non sono entra-
ti in questo ultimo turno altri bambini, ora posso an-
dare via.
Sparecchio il tavolino, ripongo tutte le cose nella vali-
getta dei volontari, saluto gli agenti della polizia peni-
tenziaria ed esco nell’assolato cortile per uscire.
Sono fuori.
Leggi di più
Leggi di meno