SIMPOSIO
21 NOVEMBRE FESTA DEGI ALBERI
Un altro giorno dedicato a loro, gli alberi, ma se ne parlerà, si faranno incontri, tavole rotonde, speciali Tv per raccontare quanto sono importanti? Ci saranno esperti per spiegare di tutti i loro benefici e che la nostra sopravvivenza dipende da loro? Tutto quanto ci sovrasta in questo tempo ci porta a concentrarci su un solo problema senza considerare che l’aria che respiriamo è indispensabile più di ogni altra cosa per affrontare disagi psicologici e malattie.
Alberi cari che allietate il nostro sguardo che ispirate artisti e poeti e che rendete sano il nostro respiro vi dobbiamo rispettare.
Giuliana
I MIEI ABETI
di Giuliana Bianchi Caleri
Si fa oggi un gran parlare di ecologia, di salvaguardia del creato, della necessità di consegnare ai posteri un mondo vivibile. Ma tutto sembra dover essere affidato alle Istituzioni, ovvero a singole Associazioni di volontariato le quali, talora con grande abnegazione, tentano di ripulire il mondo da sconsiderati comportamenti umani. Ma ciò che più spesso manca è l’azione dei singoli tendente a progettare concretamente un futuro che trascenda la propria esistenza.Eppure ciascuno di noi può offrire un contributo essenziale per l’oggi e per il domani.
La poesia che accompagna questo mio breve scritto ne è l’esempio concreto e fa riferimento ad un reale mio sentimento nei confronti di quelli che, a buon ragione, posso definirli – come sottolinea il titolo – “I miei abeti”, che lascerò in dono al futuro, perché senza dubbio, sono destinati a sopravvivere alla mia esistenza.
Oggi circa cento abeti svettano sopra un’alta collina: alti e robusti, orgogliosi dei propri rami e delle loro cime, che ogni anno s’innalzano sempre più verso il cielo, fonte di aria pura ed ossigenata per l’oggi e per un futuro sicuramente lungo nel tempo.
Tutto ha avuto inizio ormai molti anni fa, durante una visita scolastica alle Foreste Casentinesi, in territorio aretino, luogo di soggiorno molto caro a San Francesco.
Dai vivaisti del Parco ebbi in dono due fasci di piccoli abeti; con cura li destinai ad un mio terreno in alta collina ed ho seguito la loro crescita con grande passione ma, soprattutto, con sacrificio personale, sino a vederli crescere robusti e rigogliosi. I loro rami ormai si intrecciano, sino a formare un bosco ombroso… ed essi cercano il respiro salendo verso il cielo ed io li osservo come una parte di me che si proietta oltre la mia stessa morte.
È il ciclo della vita, che dobbiamo accettare con rassegnazione, consapevoli però che la vita continua, sia per gli uomini che per le piante, come recitano gli ultimi versi della lirica, in una simbiosi che ci esalta e ci umilia al tempo stesso. Gli stessi abeti, che oggi sembrano sfidare il cielo, cederanno le zolle ad altri virgulti.
Ugualmente saranno i miei nipoti a calpestare le stesse zolle e ad accarezzare i nuovi rami… ma gli abeti frattanto continueranno a donare ossigeno e quindi la vita al mondo che li circonda, senza nulla chiedere, se non di essere risparmiati da un’ascia distruttrice.
Vuol essere tutto ciò un esempio di amore concreto verso la natura e di simbiosi tra due mondi – animale e vegetale – interdipendenti fra loro.
Se infatti ciascuno di noi curasse anche un solo albero, invece di abbatterlo, o peggio, abbandonandolo ad un destino di fuoco, contribuirebbe al bene dell’intera umanità.
AI MIEI ABETI
L’ombra piano si accoccola
al fusto degli abeti
che al futuro donai.
Spalanco finestre
sulla montagna pura
per respirare intenso
degli alberi il profumo.
Robuste son le cime
per rubare l’aria
ed esplorare il cielo …
sempre più in alto.
Ma pure loro
orgogliosi un dì
il passo cederanno
a teneri virgulti.
Tale valicherò
il buio del fossato …
altri saranno i passi
a calpestare zolle
morbide di primavera
e sfiorare chiome
dal vento accarezzate.
I RAGGI X DI
WILHELM RÖNTGEN
di Sergio Bedeschi
Nell’anno 1895 siamo in piena Belle Epoque.
Il mondo si diverte, tutta l’Europa è percorsa da un’aria di spensierata gaiezza. Bismarck, dopo aver messo a tacere la Francia, ha dato una sistemata a mezzo mondo. Poco conta chi ha vinto o chi ha perso. Adesso è ora di far festa. A Vienna si balla il Valzer, a Parigi il Can Can, i pittori escono all’aria aperta a riprendere i boulevards e i caffè dove si leggono gli scandalosi versi di Verlaine e di Rimbaud. Altri dipingono fiori su tutti i muri: è l’Art Nouveau.
Anche il mondo della Scienza celebra i suoi trionfi: dopo le Equazioni di Maxwell sull’Elettromagnetismo e i Principi della Termodinamica di Lord Kelvin è come se fossimo giunti alla fine della Conoscenza. Mendel, studiando i piselli nel giardino del suo eremo, scruta il DNA con mezzo secolo di anticipo. I matematici ormai usano l’Algebra Infinitesimale come fosse un pallottoliere. Non ci sono più misteri, sappiamo tutto, dominiamo tutto. E infatti inventiamo di tutto: il fonografo, il telegrafo, il cinema, l’automobile, il dirigibile, le lampadine e la Coca Cola. Ma anche la mitragliatrice, la dinamite e i gas asfissianti. E di lì a poco se ne vedranno delle belle: altro che festa! Gli Stati Sovrani riprenderanno il loro sport preferito: quello di macellarsi e autodistruggersi a vicenda per diversi decenni.
Eppure nei laboratori delle Università stanno accadendo cose straordinarie che, se non fosse per il cattivo uso che l’Umanità spesso riesce a farne, potrebbero essere sempre un segno del cammino verso un mondo migliore. Come, per esempio, quella sera del giorno 8 novembre 1895 quando, nei locali dell’Università di Wurzburg, amena cittadina tedesca a mezza via tra Francoforte e Norimberga, Wilhelm Röntgen (Premio Nobel nel 1901) s’inventa i Raggi X.
Spieghiamola nel modo più semplice possibile:
prendete un filo metallico percorso da corrente elettrica. Esso si riscalderà. Ebbene, a certe temperature e sotto certe condizioni, dal filo si staccheranno degli elettroni. Questi elettroni, diretti in modo opportuno, sono in grado di attraversare qualunque cosa che non sia il piombo. E, al loro passaggio, sono in grado di far vedere i diversi ostacoli con un diverso grado di intensità. Voleva dire che, per la prima volta nella storia dell’umanità, potevamo “osservare” le ossa e i tessuti dentro il corpo umano (oggi guardiamo anche dentro ai metalli). Facile capire l’eco che tale scoperta ebbe nel mondo della Medicina e la sua immediata diffusione.
Ma non furono tutte rose e fiori.
Rontgen morì di cancro come peraltro l’amata compagna Bertha che lo aiutava sovente nei suoi esperimenti. Allora si era ignari delle insidie e dei pericoli in cui si incorreva a contatto con tali radiazioni. Così come peraltro sarebbe accaduto non molti anni più tardi a Marie Curie che aveva scoperto nel Radio e nel Polonio la fonte di potenti emissioni radioattive. Marie non si risparmiò in nulla. Durante la Grande Guerra assisteva i feriti al Fronte con un grosso automezzo equipaggiato come un vero e proprio laboratorio per i Raggi X. In quei difficili anni Wilhelm Röntgen era già minato dal terribile male. Marie lo sarà più tardi, cosa che non le impedirà di meritarsi, unica donna al mondo, due Premi Nobel in due diverse discipline, Fisica e Chimica. Sacrificarono la vita per noi e per il progresso del’umanità.
STORIA DELL’OPERA LIRICA/2
A cura del maestro Carlo Liberatori
Fra l’archicembalo inventato da Nicola Vicentino e il madrigale drammatico elaborato da Orazio Vecchi e Adriano Banchieri non pochi esperimenti intervennero ad arricchire la vita musicale del tardo Cinquecento italiano. Era un’epoca di inquietudine, un momento in cui la grandezza di una cultura antica vagheggiata, ma anche vissuta e applicata, cominciava a far sentire il suo peso e proprio mentre altri gravami imponeva la controriforma. Dopo il Classicismo e il Rinascimento, l’Anticlassicismo e il Manierismo, la musica, che con Joaquin Despres, Giovanni Pierluigi da Palestrina, Orlando di Lasso e Luca Marenzio aveva raggiunto alte vette, volle scrollarsi di dosso tanta tradizione e volle cercare, ricercare, sperimentare e toccare con mano. Un tentativo effimero fu tentato dal Banchieri come il madrigale drammatico: “La pazzia senile”, titolo rappresentativo di una volontà vecchia e datata. Il racconto e la descrizione, per l’appunto, sarebbero stati più giusti se forniti di una musica nuova, non più polifonica e non chiusi in una solitaria camera patrizia ma direttamente svolti sulla scena di un teatro davanti ad un pubblico. Così fu che nell’ultimo decennio del secolo nacque l’opera. Opera soprattutto come esperimento, come momento di ricerca che, rischiando l’effimero, si salvò perché il progetto aveva fondamenta antiche e moderne, musicali e poetiche, ideali e spettacolari troppo robuste! A parole il progetto era semplice: un nuovissimo spettacolo tutto e sempre musicale. Dal mottetto al madrigale, dalla villanella alla toccata, dalla voce al liuto e così via, la musica del Cinquecento italiano godeva di ottima salute e si applicava al teatro nelle forme principali, fondamentali dell’intrattenimento teatrale basato sulla musica: il ballo, il canto, la declamazione laddove, fra un atto e l’altro, si eseguivano tragedie, commedie pastorali e simili.
Copiosa la presenza musicale nelle favole pastorali del Tasso e del Guarini: in quel genere nuovo, sconosciuto agli antichi e tutto fondato sugli ozi e sugli sfoghi amorosi e capricciosi di pastorelli e ninfette, pullulavano i pretesti canori. Quale stile musicale infiorasse la commedia dell’arte o la favola pastorale non è difficile supporre. Era musica monodica, canto a voce sola con la quale si accoppiava un non determinante accompagnamento musicale, quasi inconciliabile con la dotta scrittura delle messe, dei mottetti, dei madrigali che assommavano quattro, cinque, sei linee vocali e, almeno in teoria, sdegnavano