sdegnavano accompagnamenti strumentali. Era monodia insomma e non più polifonia. Questo canto italiano, melodico ed espressivo, fragrante e comunicativo, sentimentale e brillante, troppo a lungo ufficioso rispetto all’ufficialità della polifonia, era il principale mezzo tecnico che occorreva. E l’altro mezzo che occorreva in subordine il fondamento strumentale alla voce cantante, derivava dalla vecchia prassi organistica, era il “basso seguente” e stava per prendere il nome di basso continuo (una linea musicale grave ed ininterrotta sulla quale uno o più strumenti dovevano improvvisare). Spettacolo di qua e monodia accompagnata di là, ecco gli ingredienti operativi alla nuova ricetta. A mancare ancora, era soltanto una adeguata consapevolezza, un supporto culturale che avesse le sue passioni antiche e le sue ambizioni moderne, più in breve un progetto chiaro e storicamente attendibile. La fiammella che fece scoccare l’incendio, il provvido incendio dell’opera in musica, fu la Camerata dei Bardi, attiva a Firenze negli ultimi decenni del secolo.
Il primo e più antico teatro stabile coperto dell'epoca moderna
Alla fine del XVI, nobili e dotti di città e delle corti rinascimentali promuovono incontri culturali sempre più ambiziosi per la presenza di prestigiosi artisti, ma rende indispensabile uno spazio appropriato. Non più nei cortili o nella sale dei palazzi, ma bisogna incontrarsi in un teatro vero e proprio. È la rinascita della cultura classica e della tragedia greca per il suo potenziale coinvolgimento di musica e poesia. Andrea Palladio nel 1580 incaricato dai membri della nascente Accademia olimpica di Vicenza e il suo allievo Vincenzo Scamozzi nel 1588 a Sabbioneta per il duca Vespasiano Gonzaga progettarono una struttura ispirata al modello vitruviano testimoniato dai teatri di epoca romana preesistenti.
ROMA CAPITALE D’ITALIA
Fine del potere temporale papale
4ª parte
di Francesco Bonanni
Nel 751 Astolfo, Re dei Longobardi, strappò definitivamente all’Impero Bizantino l’Esarcato d’Italia. Fu allora che Papa Zaccaria si rese conto che, non solo avrebbe perso ogni margine di manovra nei confronti della particolare durezza del Sovrano longobardo, ma che addirittura avrebbe corso il grave rischio di perdere il Potere Temporale sui territori dell’allora Patrimonio di San Pietro. Per questo chiese aiuto a Pipino il Breve il quale, avendo deposto l’ultimo Monarca Merovingio Childerico III, era divenuto Re dei Franchi. Re Pipino insieme alla Regina Berta era stato incoronato ed unto con speciale olio benedetto a Soisson dal Vescovo di Magonza san Bonifacio.
Il rito dell’Unzione da parte di un alto esponente della Chiesa, fino allora completamente sconosciuto nella Tradizione germanica, assunse un significato di assoluta legittimità regale in quanto si rifaceva alla antica cerimonia di Unzione del Re di Israele, ricordata nella Bibbia. Se è vero che la novità dell’Unzione conferiva una legittima sacralità al Potere Regale nello stesso tempo però lo sottoponeva ad una sorta di “riconoscimento religioso”, costituendo così un delicato precedente che nel tempo avrebbe comportato una serie di problemi g,iuridico-politici nei Rapporti tra i Sovrani e i Pontefici Romani. Papa Zaccaria morì il 15 marzo del 752, all’età di 73 anni, piuttosto avanzata per quei tempi in cui l’età media era intorno ai quarant’anni, e la Chiesa lo proclamò Santo con la seguente motivazione: «Papa che arginò la veemenza dell’invasione longobarda, indicò ai Franchi quale fosse il giusto Governo, dotò di chiese i Popoli germanici e tenne salda l’unione con la Chiesa d’Oriente, governando la Chiesa di Dio con somma accortezza e prudenza».
Il crescente potere politico assunto dai Pontefici Romani fu visto con malcelato disappunto da parte dell’unico Imperatore Romano rimasto, quello di Oriente, in quanto li considerava semplicemente dei Patriarchi e quindi, secondo una consuetudine iniziata da Costantino I, sottoposti all’Autorità Imperiale. Il Papato sia per accrescere la sua autonomia dalla pesante egemonia dell’Imperatore d’Oriente che per difendersi dalle mire espansionistiche dei Sovrani longobardi, intezionati a riunificare il nord ed il sud della penisola inglobando così i territori appartenenti al “Patrimonio di San Pietro”, cercò di stabilire una forte alleanza con i Re dei Franchi inizialmente, come abbiamo visto, con Pipino il Breve e poi con il suo successore Carlo Magno. A tale scopo Papa Stefano III chiese aiuto a Carlo Magno contro Desiderio, il Re dei Longobardi. A seguito della sconfitta di Desiderio nel 774 Carlo inglobò nel suo suo Regno la Longobardia Major, acquisendo così il titolo di “Rex Francorum et Longobardorum”.
Nella notte di Natale dell’800 Carlo, colto di sorpresa e con suo disappunto, fu incoronato e unto Imperatore dal Papa Leone III.
Fu l’inizio di un grande equivoco le cui conseguenze esplosero all’inizio del secondo millennio con il conflitto tra l’Imperatore Enrico IV ed il Papa GregorioVII.
SCRITTURA AL FEMMINILE
Rubrica aperta a tutti
QUERELLE DES FEMMES/3
Fra mito e realtà:
le poetesse/petrarchiste
marchigiane del XIV secolo
di Ivana Moser
Le poetesse marchigiane: un giallo letterario.
Nel secolo XI una poetessa arabo andalusa scriveva:
La bella lettera non serve alla scienza / è solamente un adorno nella carta;/ lo studio è la mia meta e non desidero altra cosa, […], versi che, attraverso la metafora della bella scrittura e il suo unico ruolo di abbellimento, elevano lo studio e la cultura a mezzo di emancipazione e superamento del ruolo di passività e adorno attribuito alle donne. È un tema che trova corrispondenza e continuità nelle poetesse italiane del Trecento, il più antico gruppo letterario italiano di donne, attive nelle Marche verso la metà del XIV secolo, accomunate da affinità culturali e tematiche, legate da amicizia letteraria e personaggi di un vero e proprio giallo della letteratura italiana. Un giallo, rimasto ancora oggi senza soluzione definitiva, iniziato da due intellettuali di Fabriano che, nella seconda metà del XVI secolo, pubblicano nelle loro opere di erudizione alcuni sonetti attribuiti a due donne loro concittadine, Ortensia di Guglielmo e Leonora della Genga, vissute due secoli prima, al tempo di Petrarca. In seguito l’elenco delle poetesse marchigiane si arricchisce di altri nomi, Livia da Chiavello, Elisabetta Trebbiani e Giustina Levi-Perotti. Per secoli storici e filologi si schierano a favore dell’autenticità degli scritti delle poetesse marchigiane o contro, liquidandoli come “falsi d’autore”, fra questi anche Carducci. Le petrarchiste marchigiane si collocano così a metà strada, fra il mito e la realtà, condizione riconducibile alla scarsità di loro notizie biografiche e alla confusione creata da molti autori fra donne-personaggio e donne reali, donne oggetto e donne soggetto di letteratura. Reali presenze o costruzioni erudite degli intellettuali del Rinascimento queste poetesse di Fabriano? La domanda rimane aperta ma certo è che a partire dal XVI secolo i loro nomi e i loro componimenti trovano spazio in numerose raccolte antologiche di poesia curate da eruditi e studiosi di Letteratura italiana. Gli studi più recenti di Letteratura di genere inoltre, interpretando e confrontando le posizioni relative all’attendibilità della questione, individuano nelle Petrarchiste marchigiane del XIV secolo il primo gruppo letterario composto da donne in Italia.
Sonetti della Querelle des Fammes Due i sonetti che rientrano nella Querelle des Fammes, nei quali Ortensia di Guglielmo, o Giustina Levi-Perotti e Leonora della Genga, in netto anticipo sulla «Querelle des femmes», che avrebbe infiammato il Rinascimento, affrontano in poesia la condizione femminile, contestano le norme patriarcali e il dominio maschile nel mondo della Politica e delle Lettere. E qui s’insinua un altro giallo nel giallo di inizio: il sonetto Io vorrei pur indirizzar queste mie piume viene variamente accreditato a Ortensia di Guglielmo o a Giustina- Levi Perotti. «Io vorrei pur drizzar queste mie piume / colà, signor, dove il desio m’invita, / e dopo morte rimanere in vita, / col chiaro di virtute inclito lume. / Ma ‘l volgo inerte che dal rio costume / vinto, ha d’ogni suo ben la via smarrita, /come digna di biasimo ognor m’addita, / ch’ir tenti d’Elicona al sacro fiume, /all’ago, al fuso, più che al lauro o al mirto, come che qui non sia la gloria mia, /vuol ch’abbia sempre questa mente intesa. […]»: un sonetto diretto a Petrarca e al quale lo stesso Petrarca avrebbe risposto con il VII sonetto del Canzoniere di Petrarca La gola, e il sonno e le oziose piume. Al di là del tema della fama, è molto esplicita qui la rivendicazione di uno spazio femminile nella cultura e altresì la ribellione al confinamento delle donne nell’ambito domestico, all’ago e al fuso, riservando esclusivamente ai maschi gli onori della vita pubblica, al lauro o al mirto, piante che simboleggiano la gloria poetica.
Leonora della Genga condivide con Ortensia la rivendicazione del valore delle donne, esprimendola in un sonetto alquanto bellicoso: «Tacete, o maschi, a dir, che la Natura / a far il maschio solamente intenda, / e per formar la femmina non prenda, / se non contra sua voglia alcuna cura. / Qual’ invidia per tal, qual nube oscura / fa, che la mente vostra non comprenda, / com’ella in farle ogni sua forza spenda, / onde la gloria lor la vostra oscura? / Sanno le donne maneggiar le spade, / sanno regger gl’Imperi, e sanno ancora / trovar il cammin dritto in Elicona. […]».
L’inizio del sonetto è perentorio e inverte la regola del silenzio imposto alle donne, contestando la superiorità naturale dell’uomo, evidenziando poi le capacità femminili in ambiti considerati prettamente maschili (la spada, la corona, la cultura/poesia) e cercando di sconfessare la fallace presunta naturale inferiorità femminile.
Petrarchismo Definite spesso le petrarchiste marchigiane, il poetare di queste donne mostra sì dei punti in comune con i dettami poetici di Petrarca, ma non si limita a pura imitazione bensì a innovazione, soprattutto a livello di contenuti. A differenza delle petrarchiste del Cinquecento, le poetesse marchigiane non si occupano della tematica amorosa, affrontando invece tematiche sociali, civili e politiche. Dieci sono in totale i loro sonetti a noi tramandati. Due di questi, qui riportati, rientrano a pieno titolo nel contesto della Querelle des Fammes: a colpi di penna Ortensia e Eleonora affrontano la battaglia per mostrare e dimostrare il valore delle donne e rivendicare la partecipazione femminile anche alla vita poetica, anticipando di mezzo secolo Christine de Pizan e la sua opera La città delle dame (1404).
Riferimenti bibliografici: Le petrarchiste marchigiane: un giallo letterario”, Mercedes Arriaga Flórez, “Studi Umanistici Piceni”, 2008; Daniele Cerrato, Presenza/Assenza delle petrarchiste marchigiane 2013 e Sorelle di Querelle, 2017.