MARIO CASTELNUOVO TEDESCO
Nato a Firenze il 3 aprile 1895, il 13 luglio 1939.
a 44 anni, a causa delle sue origini ebraiche la sua vita cambiò drasticamente. Costretto all’esilio, si rifugiò negli Stati Uniti. Una scelta dolorosa: abbandonare quel paese che, fino al 1937, gli aveva permesso di trascorrere una vita felice. Mario Calstelnuovo Tedesco, figlio di banchieri, ricevette un’educazione ed una preparazione artistica di alto profilo. La primaria istruzione gli fu impartita in casa e iniziò da giovanissimo lo studio del pianoforte con la madre e con Edgardo del Valle de Paz. Proseguì i suoi studi in conservatorio con il maestro Ildebrando Pizzetti al quale gli fu grato per tutta la vita dedicandogli uno dei suoi Caprichos de Goya.
Firenze – Arturo Toscanini e Alfredo Casella
Conobbe Toscanini in occasione di un pranzo a lui dedicato. Il grande direttore, s’interessò molto alla nuova musica del giovane compositore toscano e di lui in seguito diresse molte opere. La conoscenza con Alfredo Casella iniziò nel 1915 al Conservatorio di Firenze ove si era recato per incontrare il suo amico Ildebrando Pizzetti. Casella, rimase affascinato dall’esecuzione di Castelnuovo-Tedesco La soirèe dans Granade, anche perché gli rammentava quella di Debussy ascoltata di persona.
Il teatro e Giacomo Puccini
I primi vent’anni furono dedicati prevalentemente alla musica per voce e pianoforte e nel 1920, Cantico vinse 1°premio al concorso della rivista “Il Pianoforte”.
Ma l’interesse per il teatro, in particolare per la commedia, caratterizzò la sua produzione. In tal senso, uno dei primi lavori. La mandragola di Machiavelli, lo mise a stretto contatto con Giacomo Puccini e a ottenere il 1°premio al Concorso della Direzione Generale delle Belle Arti per un’opera lirica, nel 1925. Per questa vittoria ottenne la possibilità di rappresentarla al teatro La Fenice di Venezia. Ma, non ebbe il successo desiderato. L’aristocrazia veneziana considerava La mandragola, immorale. Inoltre la critica pungente di Guido Pannain (sconfitto al Concorso nazionale del 1925), fece di tutto per ostacolarne il successo.
Clara Forti la moglie adorata
Si conobbero nel 1915 e ci volle molto tempo perché Mario, di carattere mite e gentile riuscisse a conquistare il cuore di Clara e chiederla in sposa. Temeva di esporla ad un futuro incerto dettato dal lavoro di musicista. Si sposarono nel 1924 e fu un matrimonio felicissimo, culminato con la nascita dei loro due figli Pietro e Lorenzo, diventati poi rispettivamente psichiatra e architetto.
Sino al momento dell’esilio vissero nell’amata villa a Usigliano di Lari che ispirò Cipressi, una delle composizioni più celebri dell’autore.
Il fascismo
Fino al 1938, dal punto di vista politico, Castelnuovo-Tedesco non ebbe particolari problemi con il regime poiché, non essendo un insegnante di conservatorio non era costretto a sottoscrivere il “Manifesto degli intellettuali fascisti”. Inoltre, egli apparteneva ad una famiglia dell’alta borghesia finanziaria, categoria sociale su cui il fascismo faceva leva per affermarsi. Nel 1932 fu diffuso il “Manifesto dei musicisti italiani per la tradizione dell’arte romantica dell’Ottocento”. Sostanzialmente, fu un attacco alle opere di Casella e Malipiero, ma, ancora una volta, Castelnuovo-Tedesco si rifiutò di apporre la firma. Nell’anno precedente, invece, in seguito all’episodio del ceffone ricevuto da Arturo Toscanini da alcuni esponenti fascisti per essersi rifiutato di eseguire l’inno fascista Giovinezza, Castelnuovo-Tedesco non esitò dal far sentire il proprio sostegno al grande Maestro.
Tuttavia, nel 1935, Mussolini stesso decise di affidargli la composizione delle musiche per il dramma Savonarola, di Rino Alessi. Probabilmente, fu una scelta dettata dal fatto che Castelnuovo-Tedesco era considerato, in quel periodo, il musicista fiorentino per eccellenza.
Le leggi razziali
Il primo segnale dell’imminente esilio arrivò nel gennaio del 1938, quando Giulio Bignami, violinista fiorentino con cui Castelnuovo-Tedesco collaborò in passato e a cui aveva affidato l’esecuzione de I Profeti, si recò dal Maestro per ottenere spiegazioni circa la cancellazione e la sostituzione del concerto, temendo che fosse stata una scelta del compositore stesso. Tuttavia, l’esecuzione dell’opera fu annullata poiché composta da un autore ebreo. Castelnuovo Tedesco non esitò a rivolgersi ad Alessandro Pavolini, suo amico di vecchia data che divenne, poi, presidente della Confederazione fascista dei professionisti e degli artisti, ma non ottenne la risposta desiderata. Il 18 marzo 1938 l’esecuzione de I giganti della montagna, diretta da Gino Marinuzzi durante il Maggio Musicale Fiorentino, fu l’ultima occasione per Castelnuovo Tedesco per ascoltare una sua composizione in Italia. Nello stesso anno, rientrato dopo un viaggio in Svizzera, venne al corrente della promulgazione delle leggi razziali in Italia e, di conseguenza, decise di abbandonare il paese nativo.
CURIOSITÀ NELLA POESIA/7
di Sergio Bedeschi
Santi protettori
Paese che vai, usanza che trovi. Parafrasando viene da dire: ad ogni attività umana corrisponde un Santo protettore, una Divinità, una Musa, un Mecenate, un Patròn, abitudini di ieri, di oggi e di domani. Così anche i temi di cui parliamo, cioè Sport, Scienza, Tecnica e Poesia reclamano i loro belli e facoltosi sponsor dotati se possibile di mezzi straordinari quando non addirittura di facoltà magiche, divine o miracolistiche. O magari più materialmente di quattrini sonanti per finanziare le attività dei loro protetti, come avviene ai tempi nostri. Fateci caso: se leggete le cronache sportive, oggi come oggi sembra che ogni specialità sportiva abbia il suo santo: San Giorgio è per chi va a cavallo o maneggia una spada, la Madonna del Ghisallo per i ciclisti, San Bernardo per gli alpinisti, San Sebastiano com’è ovvio per gli arcieri, San Bernardino da Siena, che aveva la mano pesante, per i pugili, San Cristoforo un po’ per tutti. L’elenco è lungo e non finisce mai. L’ultimo l’hanno inventato quelli del basket con la Madonna del Ponte soltanto qualche anno fa. Usanze nuove e vecchie: le buone abitudini non si perdono mai.
Divinità protettrici
Vi sfido a trovare un’opera di poesia a partire dal mondo latino e per tutti i secoli a venire dove non ci sia un’appassionata e ossequiosa dedica con ringraziamento a chi di dovere. Ai tempi degli antichi Giochi Olimpici Zeus era il papà di tutto. A lui erano rivolte preghiere e segni di gratitudine. Quante fossero le Muse ispiratrici (o protettrici) non è ben chiaro, ma di sicuro Urania e Calliope fanno al caso nostro. La prima per l’Astronomia e per la scienza in generale (Urania = cielo), la seconda per la poesia (quel dolce di Calliope labbro, lo scrive il Foscolo e il labbro è quello del Petrarca). Virgilio (perché è di Virgilio che vogliamo ancora parlare) i suoi protettori li aveva, eccome! Ottaviano Augusto e Mecenate, almeno. Lui, il poeta contadino, costretto dalle circostanze a scrivere quello che forse non avrebbe mai voluto scrivere (l’Eneide), un poema volto ad esaltare la grandezza della Giulia Gente e probabilmente a dire un sacco di bugie sulla nascita di Roma, a raccontare di un Enea saggio, forte, paziente, generoso, rispettoso di tutte le leggi e di tutte le divinità, modello ideale di uomo romano, capo e guida di pacifici coloni che partendo da Troia erano approdati sulle spiagge di Lavinio. Quando invece si era trattato di crudeli invasori venuti dal mare per tutto conquistare e tutto distruggere (leggere Un infinito numero di Sebastiano Vassalli, Einaudi. Perché no?). Enea massacratore di donne e bambini, spietato qui da noi com’era stato spietato nella Troade, altro che storie! Ma Virgilio aveva dovuto. Il suo “esilio dorato” di Napoli e i favori di Ottaviano lo richiedevano. Non avrebbe potuto sottrarsi. Mai. D’altronde poteva sempre consolarsi con le sue Georgiche e con la nostalgia del mondo contadino. E con la sua vocazione di istruttore tecnico sulla gestione della campagna, sia per quello che riguarda la cura della terra e degli animali, sia per quello che riguarda l’uso degli strumenti agricoli del suo tempo. E allora, dai! Con le Georgiche consoliamoci anche noi ancora una volta, pur dovendoci accontentare di una traduzione (ben altro sarebbe recitarlo in latino, magari cantato con la metrica):
Ma tempo è qui di ricordar quai sieno
De gli operosi agricoltor le varie
Armi e stromenti, senza cui non ponno
O seminarsi, o sorgere le messi.
Prima di tutto il vomero e l’adunco
Pesante aratro è necessario, e il lento
De l’eleusina dea stridulo carro.
Il trivolo e la treggia, e i ferrei denti
Del grave rastro; e la minuta inoltre
Di Celeo suppellettile, la corba
Di vimini contesta, e il sacro a Bacco
Misterioso vaglio: e questi arnesi
Gran tempo innanzi apparecchiati avrai,
Se di feconda e florida campagna
Al primo cessar dei venti aspiri.
Demetra-Cerere
Due note, per gustarla di più: l’eleusina dea è Demetra, Cerere per i latini, dea dell’agricoltura; il trivolo e la treggia sono la trebbiatrice e la slitta; la corba è una cesta; il vaglio è un filtro.
Ciao grande Virgilio! Ti lasciamo. Se mai ci rivediamo all’Inferno, con Dante intendo dire. Alla prossima dunque, nella quale vi promettiamo ci metteremo Catullo. Uomo di scienza anche lui? Come mai? Lui fatto di baci e d’amore? Com’è possibile? Aspettate e vedrete.
I RACCONTI DAL FARO
UNA LUNGA SCIA D’ARGENTO
È un giorno di burrasca, oggi. L’aria scura di foschia è penetrata dalla luce alta della lanterna, mentre le onde dell’Oceano si abbattono violente sulle pareti del faro. Al riparo dagli elementi, la giornata è adatta per sfogliare - assaporando l’aroma dolce del tabacco della pipa - le pagine di un libro che racconta di una bella storia di mare.
BERNARD E JOSHUA - È la storia della navigazione “in solitaria” intorno al mondo del francese Bernard Moitessier con la sua barca Joshua (un ketch rosso, bialbero, di circa 14 metri). Bernard aveva deciso di partecipare ad una gara velica di circumnavigazione del Globo senza scalo, che prevedeva un premio di 5.000 sterline per chi la avesse compiuta nel minor tempo. Partito da Plymouth (Inghilterra) nell’agosto del 1968, dopo aver superato il Capo di Buona Speranza a Sud dell’Africa aveva navigato per sei mesi verso Est, attraversando l’Oceano Indiano e il vasto Pacifico, raggiungendo infine il Capo Horn, all’estremo Sud del Continente americano. Oltrepassato il Capo, aveva iniziato a risalire l’Oceano Atlantico per ritornare a Plymouth, il suo traguardo. Era in netto vantaggio sugli altri concorrenti e, pertanto, sicuro vincitore. Ma quei mesi di solitudine in mare lo avevano cambiato interiormente. Sentiva di non appartenere più a quelle terre alle quali accostava lungo la rotta senza mai approdare e dalle quali si allontanava al saluto di genti sulla riva. Il suo mondo era divenuto ora la sua barca Joshua, con le sue vele: un mondo del rosso della chiglia e del bianco della coperta e del blu del mare, fatto di vento, di spazio, di aria pura e di stelle, di nuvole e di libertà. Aveva dimenticato la terraferma, le sue città spietate, le sue folle senza sguardo, affannate a seguire il ritmo di un’esistenza dal significato a volte sconosciuto.
Nel libro di Bernard che sto leggendo, così egli fissa quelle sensazioni:
[…] il soffio dell’alto mare […] al mondo non c’eravamo più che Joshua ed io, il resto non esisteva, mai era esistito […].
E Joshua, era come se con lui avesse stretto un patto, e gli avesse detto: Dàmmi vènto e ti darò miglia.
CAMBIATA LA ROTTA! - Fu così che, al passaggio di Capo Horn, Bernard iniziò a maturare la decisione di cambiare la rotta che lo riportava in Inghilterra. Scrive:
[…] Capo Horn è stato doppiato il 5 Febbraio e siamo al 18 Marzo. Continuo senza scalo per le isole del Pacifico, perché in mare sono felice e forse anche per salvarmi l’anima […] Quindi, in pieno Atlantico, quando era a pochi giorni dall’arrivo e dal successo, invertì la rotta, dirigendosi di nuovo verso Sud. Passò per la seconda volta il Capo di Buona
Speranza e proseguì senza scalo per gli altri Oceani sino all’isola di Tahiti, in Polinesia, ove giunse il 21 Giugno 1969 dopo aver percorso un altro mezzo pèriplo del Globo. La sua rinuncia alla gloria, al denaro, alla competizione, in nome della purezza della navigazione è ricordata come uno dei momenti più alti dello sport velico. E, se Bernard non sapeva come darne - anche ai suoi cari - una spiegazione, era cosciente tuttavia di sentirsi in pace con la prora puntata ad Oriente:
[…] ho rimesso la prua verso il Pacifico […] il tempo è bello, la scia si srotola dolcemente. Accoccolato a gambe incrociate nel pozzetto, guardo il mare ascoltando la nota cantata dalla prora. E vedo un piccolo gabbiano posato sul mio ginocchio.
Il bel viaggio del Joshua volge ora quasi alla fine, al termine della lunga scia d’argento. E volge quasi alla fine il viaggio di Bernard, alla ricerca di se stesso.
Buon Vènto!
Il Guardiano del Faro
Joshua
Nu criaturo e na vela c’ ’o porta
’o porta p’ ’o mare e p’ ’o cielo,
’ncoppa ’e spalle nu nomme pesante.
Nu criaturo va ncontro ô mistero.
Un bambino, una vela lo porta
lo porta per cielo e per mare
sulle spalle un nome pesante.
Un bambino va incontro al mistero.
Alfonso Marino
Scritta in napoletano per il nipotino Joshua e tradotta per tutti