L’occidente non è attrezzato per contrastare il revanscismo russo
Resistere, resistere, resistere
Ho passato più di tre anni in servizio presso il Comando Supremo della Nato in Europa e ricordo, come se fosse ieri, l’atmosfera vissuta in quella giornata del novembre 1989, una giornata strana e fredda come sanno essere fredde e nebbiose le giornate nella Vallonia Belga. Ricordo nettamente il sentimento di gioia e perplessità mentre arrivavano le notizie e le immagini della caduta del muro di Berlino e delle migliaia di vecchie piccole Trabant che lasciavano scie di fumo nero sulle autostrade di una Germania riunita.
La gioia nel vedere cittadini tornati liberi e la perplessità di chi sente di perdere una delle ragioni fondamentali del proprio impegno. La NATO aveva perso il suo nemico e la sua ragione di esistere e nei mercatini di tutta Europa si potevano comprare colbacchi e cimeli militari lasciati dai militari sovietici che rientravano nelle loro basi in Russia.
L’8 dicembre di due anni dopo i capi di Russia, Ucraina e Bielorussia si incontrarono a Belavezskaja per firmare l’accordo Belaveza che sanciva la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il 26 dicembre 1991 la bandiera rossa con la falce e martello veniva ammainata dal pennone del Cremlino. Nello stesso giorno Il Tenente Colonnello Vladimir Vladimirovic Putin si dimetteva dal KGB per trasferirsi nella sua Leningrado, che da pochi giorni era tornata al suo vecchio nome di San Pietroburgo, per darsi alla politica.
Da allora la NATO ha cercato di rigenerare le motivazioni della sua stessa sopravvivenza che erano quelle di costituire una barriera omogenea contro l’espansionismo comunista sovietico. Negli anni, tentativi di reinventarsi sono stati graduali e molteplici e dai 12 paesi fondatori si è passati a 30 paesi membri, includendo anche satelliti ed ex paesi sovietici. Il vecchio concetto della difesa collettiva ha assunto, a partire dal dissolvimento dell’URSS, altri significati fino a revisioni dottrinali drastiche che hanno portato ad impegni, che con la difesa atlantica hanno ben poco da spartire, come la disastrosa, costosissima missione in Afganistan che è durata venti anni ed è finita nel modo tragico che tutti sappiamo. L’aver “perso di vista” il pericolo sovietico ha causato smottamenti e distinguo di quel fronte una volta granitico. Il graduale disimpegno degli Stati Uniti è stato causa di un forte indebolimento dell’Alleanza che è sempre meno “atlantica”e sempre più strumento di dissuasione che non ha più la forza, l’omogeneità e le motivazioni che sono servite a preservare l’occidente dall’egemonia espansionistica dell’est sovietico.
L’eventualità che anche l’Ucraina, dopo le Repubbliche Baltiche, la Romania, la Bulgaria, la Cekia, l’Ungheria e la Polonia, possa aderire alla NATO è la ragione dichiarata delle smanie revansciste di quel tenente colonnello che di carriera politica ne ha fatta e che siede da anni in permanenza e con potere assoluto nella cittadella del potere russo.
Lo zar dei tempi moderni ha saggiato per molti giorni le capacità reattive del mondo democratico con provocatorie manovre terra-mare-aria, tutte in prossimità dei confini dell’Ucraina, dopo aver fatto della Crimea un sol boccone, senza colpo ferire. Ha scelto un periodo di particolare smarrimento dovuto alla pandemia ed alla crisi economica ed energetica ed ha utilizzato un metodo tutt’altro che originale: ha riconosciuto Donetsk e Lugansk due piccole enclavi russofone della regione del Donbass, in contrasto col governo di Kiev, e poi ha “risposto” al grido di dolore che dalle due piccole repubbliche gli veniva rivolto ed ha inviato una forza di contrapposizione tra la fazione russofona e l’autorità governativa. Insomma un’invasione camuffata da operazione di “peace keeping” mentre il mondo stava a guardare.
Ha accompagnato l’operazione con un lunghissimo annuncio con cui ha effettuato una ricostruzione delirante dei fatti e della storia infarcita di astio e di odio, nei confronti dei fratelli ucraini che tanto peso hanno avuto nella storia dell’URSS.
Tutto, nel tentativo di giustificare un intervento che è solo un atto violento per impedire al governo di un altro stato liberamente eletto di scegliere le proprie alleanze e la propria storia.
Il mondo “libero”, incapace di dare una risposta dura ed univoca e gli stessi paesi membri della NATO hanno reagito, nell’immediato, con sanzioni e limitazioni commerciali graduali e diversificate non tanto per carenza di un coordinamento, che gli Stati Uniti non sono più capaci di esercitare, ma perché quelle sanzioni e quelle limitazioni sono un boomerang che rischiano di danneggiare i paesi europei che le infliggono più della Russia che le deve subire.
E’ significativo e quasi umiliante il comunicato della Casa Bianca del 24 febbraio con cui il Governo USA infligge sanzioni contro le repubbliche indipendentiste di Donetsk e Lugansk. Non è chiaro se gli USA identifichino le due entità, che sono a maggioranza russofona, come stati autonomi da sanzionare e quindi riconoscendoli sul piano legale ovvero non li riconosce che significa che il governo degli Stati Uniti infligge, di fatto, sanzioni a due province ucraine. Una gradualità che sa tanto di titubanza di fronte allo schieramento militare colossale che non può dare adito a dubbi. Una gradualità inopportuna se, come è apparso del tutto vero, gli USA avevano la certezza di un attacco generalizzato sin dall’inizio.
Alla “risposta graduale” lo Zar Putin fa seguire un altro breve intervento verbale, che si dice sia stato registrato giorni prima mentre il Ministro degli Esteri russo Lavrov negoziava e negava qualsiasi intenzione interventista, con cui dichiara che è costretto a “demilitarizzare e denazistizzare” l’Ucraina e la invade con un uno spiegamento di forze paragonabili all’azione di chi vuole spegnere un fiammifero con un ventilatore. Una strage che scuote un’Europa assopita da decenni in cui ha flirtato con un mostro e che ora cerca di recuperare con sanzioni che colpiscono con una forza decisamente inferiore a quella che Putin ha impiegato per colpire i fratelli ucraini.
Un’Europa colpevole di non essere stata capace di porre rimedio al disimpegno USA nel contesto dell’Alleanza Atlantica ed ha stabilito legami civili con chi ha, da sempre, covato il sogno di un ritorno ai fasti dell’URSS. Un’Europa dedicata al definire regole commerciali ed economiche ma incapace di creare lo strumento di protezione militare che oggi sarebbe l’unico elemento di dissuasione nei confronti di un pazzo sanguinario.
E’ triste sentir parlare di “evitare le sanzioni perché ci tagliano il flusso di gas” che è come dire che la libertà di un popolo vale meno del prezzo del riscaldamento, dell’aria condizionata o di una produzione industriale penalizzata.
La libertà di un popolo europeo vale la libertà dell’Europa e non dovrebbe essere negoziabile. Le sanzioni dell’Europa devono prescindere da quanto deciderà l’attuale presidente degli Stati Uniti che, per come si muove nello scacchiere mondiale, fa finanche rimpiangere il suo predecessore; che è tutto dire.
Oggi tutti ci dovremmo sentire ucraini proprio come Kennedy si sentì berlinese e dobbiamo essere pronti a collaborare, anche con qualche sacrificio, a che la pace e la libertà tornino in quel paese perché di pazzi la storia ne ha già visti ad alla loro pazzia non c’è stato limite.
Nella speranza che il popolo ucraino possa organizzare un’efficace resistenza e che quello russo riesca a comprendere che Caino era il fratello cattivo. Una resistenza prolungata, sanzioni drastiche ed aiuti rilevanti ai combattenti ucraini potrebbero essere letali per Putin e la sua cricca.
Sergio Franchi
Un Ministro che non è adatto ad un paese del G7
Una campana stonata
Si muove a livello internazionale con l’aereo di Stato, come fanno i ministri degli esteri, ma non si comprende quale sia la politica estera del nostro Paese e se ce ne sia una. Quella del Ministro degli Esteri di un governo in un mondo globalizzato è una delle figure fondamentali in una forte strategia governativa: è il capo della diplomazia e cioè dell’arte del sussurrare gridando e del gridare sussurrando.
De Gasperi, Nenni, Sforza, Martino, Fanfani, Segni, Saragat, Moro ed altri di questo calibro hanno ricoperto questa prestigiosissima carica come Agnelli, Martino, Frattini, Dini ed Emma Bonino che sono stati ministri degli esteri nella storia più recente della nostra Repubblica. Allora la domanda struggente è: ma che ci fa Giggino Di Maio nella lista di personalità di grandissimo spessore che hanno rappresentato l’Italia nel mondo? Che ci fa un “personaggetto”, come lo definì il Governatore De Luca, Presidente della Regione Campania, nel novero di coloro che per capacità, perché fa parte del Governo dei migliori, dovrebbe essere esperto nel tessere la difficile rete della diplomazia? Come può fare il Ministro degli Esteri uno che suscita i sorrisetti di chi lo circonda e che colleziona gaffe per la gioia dei comici che lo imitano? Possibile che l’aver avuto qualche successo al meetup di Pomigliano d’Arco ed essere stato votato da un popolo di scontenti possono trasformare un ragazzotto, che non aveva mai presentato una denuncia dei redditi e che faceva qualche soldo a vendere bibite allo stadio di calcio, in un Ministro degli Esteri? Ministro degli Esteri!!! Invece è proprio cosi: dopo aver sconfitto la povertà, aver fermato la TAV, risolti grossi problemi dell’ILVA di Taranto, bloccato la TAP e risolto il problema dell’immigrazione clandestina ora è impegnato nel fare grande l’Italia nel mondo. Lo abbiamo visto in passato in qualche operazione di successo come quella che lo portò, insieme al Presidente del Consiglio Conte, ad ossequiare Khalifa Haftar, dittatore della Cirenaica e sequestratore di 18 pescatori di Mazzara del Vallo.
E’ un dato di fatto che l’Italia è, per storia e per geografia, un partner storico della Libia; ora la Turchia, l’Egitto ed altri hanno cacciato l’Italia dalla Libia della quale, però, il nostro Paese resta il destinatario privilegiato di un flusso ininterrotto di migranti clandestini. Insomma un disastro su tutta la linea ed è incomprensibile come sia possibile affidare un dicastero vitale della nostra politica e della nostra stessa sicurezza, in tempo di guerra, ad una persona senza esperienza e senza capacità. Negli ultimi giorni si è mosso nello scacchiere europeo in incontri per risolvere il “dossier ucraino”.
Dire che è stato del tutto ignorato non è esatto perché si dice che quando, dopo l’incontro, nella conferenza stampa, citò come “collega” il ministro degli esteri russo, Sergej Viktorovic Lavrov , detto la Volpe degli Urali per la sua immensa capacità diplomatica, più di un sorrisino si è visto nella sala. Il Ministro degli Esteri Russo ha asfaltato il malcapitato con la frase : “Imparate a fare i diplomatici” e “la sua idea di diplomazia è viaggi a vuoto in giro per i paesi e degustare piatti esotici a ricevimenti di gala”.
Cose da ribattere con durezza o da dimettersi sull’istante. Le simpatie per la Russia del suo partito ed il disastroso trattato della “via della seta” con la Cina sono altri due atteggiamenti di una politica estera astrusa e pericolosa di cui il nostro è stato artefice. Dire che Di Maio sia colpevole dell’invasione russa dell’Ucraina è una boutade perché nel suo giro di incontri ha ripetuto, come una campana stonata, esclusivamente la stessa frase, banale quanto inutile, “l’Italia persegue una soluzione diplomatica”. Una frase che ha anche ripetuto quando le armate russe circondavano Kiev. Ma ditemi voi che significato ha una dichiarazione del genere? Quale ministro degli esteri dichiarerebbe mai il contrario? Se vogliamo essere esatti in Russia ha anche aggiunto che l’Italia non è favorevole alle sanzioni mentre il resto del mondo occidentale utilizzava lo spettro delle sanzioni per cercare di dissuadere lo Zar Putin. Salvo poi dichiarare, subito dopo l’ingresso delle truppe russe nel Donbass, che “l’Italia convinta sulla via delle sanzioni”. Non credo sia rilevante quale sia il partito politico di Luigi di Maio ed ho anche qualche dubbio che lui sappia oggi di che partito faccia parte, ma forte è la convinzione, condivisa dalla stragrande maggioranza degli osservatori, che l’incarico di Ministro degli Esteri, in un contesto storico cosi importante e pericoloso, debba essere affidato ad un diplomatico di forte spessore e grande esperienza.
Magari al giovane grillino, che è dotato di una immensa ambizione personale, si potrebbe affidare un incarico meno impegnativo nella speranza che l’affermazione, fatta di Beppe Grillo, sulla limitazione del doppio mandato parlamentare, sia confermata.
Sergio Franchi