MIKIMOTO E “LE PERLE COLTIVATE”
Nel decennio del 1890 un imprenditore giapponese Mikimoto Kōkichi riuscì nell’esperimento di provocare artificialmente lo sviluppo di una perla all’interno di una normale ostrica non-perlifera (inserendovi una scaglia di madre-perla): era nata quella che sarebbe stata chiamata da allora “perla coltivata” (in quanto “non formatasi al naturale”). Per la produzione a livello industriale, a Mikimoto servivano grandi quantità di ostriche da “inseminare” e, per la loro raccolta, pensò di utilizzare le pescatrici ama della zona della Prefettura di Mie, sulla costa del Pacifico dell’isola di Honshū (la maggiore dell’arcipelago giapponese), ove aveva costruito una fabbrica. Il successo commerciale fu grande e Mikimoto decise di organizzare per le sue pescatrici immersioni dimostrative per i visitatori della fabbrica. Sino all’introduzione in Giappone della cultura occidentale (verso la fine dell’Ottocento), il tradizionale abbigliamento in acqua delle ama- come detto - era solo un perizoma. A una bandana sul capo, poi, potevano attaccare ciondoli per invocare la protezione degli dei. Notando lo stupore degli spettatori stranieri per il succinto abbigliamento delle nuotatrici, egli ideò un costume più “tradizionale” per le immersioni: pantaloncini corti, camicione con maniche lunghe e una cuffia. Al giorno d’oggi, le ama si immergono per i visitatori del Museo della Perla di Mikimoto, nella Prefettura di Mie, con un completo interamente di colore bianco (colore scelto perché non gradito agli squali), ridisegnato circa un secolo fa.
Il Guardiano del Faro
OSSERVATORIO LINGUISTICO
Rubrica aperta ai contributi
di tutti gli interessati
Incoerenze della lingua
di Giancarlo Marchesini
Alcune espressioni della lingua potrebbero, ad un’analisi superficiale, apparire incoerenti: ha studiato i classici greci per lunghi anni. Esistono anni lunghi e anni brevi (a parte i bisestili)? Vado a comperare il pane fresco. In realtà è appena uscito dal forno, quindi è caldo. Sono sul treno: sopra il treno o dentro il treno? Entra dentro: dove si può entrare se non dentro?
Incoerenti ma espressive.
Certo, tutti capiamo le intenzioni che sottendono queste frasi: chi si è dedicato anni e anni allo studio del greco ha l’impressione soggettiva che la durata temporale si sia dilatata. Sempre soggettivamente, il pane fresco è stato appena panificato, quindi è caldo, è “fresco di forno”. Sono sul treno: perché si considera l’atto di salire nel vagone. Entro dentro: ha in realtà un valore deittico: come quando dico “Quel palazzo là, indicandolo col dito”. Lo stesso vale per uscire fuori, scender giù, salire su... Incoerenti o no, tutti ci riconosciamo in queste espressioni, fanno parte della vita di tutti i giorni e nessuno ne contesta la validità.
Consenso linguistico.
Altra cosa sarebbe se dicessi: una rondine FA primavera. Lì metterei in dubbio un’espressione nota a tutti, andrei contro il senso comune, negherei, prima che un modo di dire, un fatto legato alla saggezza popolare. Esiste un amalgama che lega tutti i parlanti italiano (ma anche di altri idiomi): il consenso linguistico. Ci riconosciamo in un determinato modo di esprimerci e riconosciamo i parlanti che vi aderiscono come appartenenti al nostro gruppo.
L’altra faccia della medaglia.
Chi usa a sproposito questi modi di dire, chi li deforma per ignoranza viene immediatamente classificato come non appartenente al gruppo: lo straniero. È vero che al tramonto il sole si tinge di arancione. Ma se dicessi “arancione di sera bel tempo si spera” denuncerei la mia non-italianità.
Lei / Loro / Voi.
Da decenni non usiamo più il pronome loro come plurale del lei. Resta come “reliquia linguistica” in alcune frasi fatte. In un ristorante “bene” il cameriere si rivolge alla comitiva dicendo “Desiderano”? Poi, però, passa immediatamente a un voi collettivo ma non pensa, neppure per un minuto, di dare del tu ai singoli commensali. Il voi è diventato a tutti gli effetti il plurale di lei ma nessuno pensa che usandolo in una trattativa commerciale o in un incontro al vertice stiamo dando del tu ai nostri colleghi (o come si usa dire ai nostri omologhi).
Loro vs. Voi.
Ai tempi in cui frequentavo La Sapienza, Natalino Sapegno (proprio lui, il Grande Sapegno, autore di avvincenti storie della letteratura e di un indimenticabile commento alla Divina Commedia) si rivolgeva ai suoi studenti con il loro. “Come loro certamente sapranno...”. Alcuni dei miei compagni di corso si voltavano indietro e chiedevano: “Ma con chi sta parlando”? Eravamo alla fine degli anni ’60. Già allora il loro allocutivo (forma di cortesia) era territorio sconosciuto!
Uso e abuso.
Se soltanto fossimo così disincantati rispetto alla pletora di parole inutili che invade la nostra lingua! Abbiamo veramente bisogno di dire device invece di apparecchio / dispositivo, assist invece di aiuto/sostegno?
Invenzioni.
Per non parlare dei vocaboli “inglesi” che inventiamo di sana pianta. In tutti i paesi del mondo un Sex shop è un punto vendita che propone articoli erotici (dalle riviste ad oggetti di cui non voglio approfondire la funzione). Ma in Italia questo punto vendita diviene Sexy shop, come se fossero le pareti del negozio ad esercitare una funzione eccitante!
Incoerenze e coerenze.
Chiedete ad un angloamericano cosa significa No profit è vi risponderà che è un assurdo in termini, un’impresa che per principio esclude la benché minima produttività. La vera espressione inglese è Non profit, cioè non a scopo di lucro. Qualcuno si è inventato dressing code, usato invece di dress code, per indicare l’abbigliamento richiesto in una determinata occasione. Queste sono vere incoerenze, al confronto delle quali i nostri “entro dentro / esco fuori”, “sono sul treno” e il “pane fresco” sono espressioni condivise che dicono a tutti la stessa cosa!
SOS...
come
ricordare
un numero "impossibile"?
di Vincenzo Corsi
Con la Tecnica della conversione
fonetica si può!
Basta inventare una storiella ove le consonanti corrispondono a determinati numeri e, aggiungere opportunamente delle vocali trasformarle in parole che si possono ricordare con più facilità di una serie di numeri coadiuvando altre regole mnemoniche.
Esempio:
1- dentale - T, D - tè, dea, ateo, due, atto
2- nasale - N, GN - neo, anno, gnè
3- mugolante - M - amo, mio, emme
4- vibrante - R - ara, re, oro, erre
5- liquido - L, GL - ali, lui, aglio, li
6- palatale - C, G (dolci,) - ciao, oggi, ci, gi, agio
7- gutturale - C, G (dure), - occhio, eco, chi, qui, ago, gay, acca
8- labiodentale - F, V - ufo, uva, via, uffa, avvio
9- labiale - P, B - boa, ape, oppio, oboe
0- sibilante - S, SC, Z - sei, esse, zio, ozio, ascia, scia
Regole da rispettare:
Le consonanti corrispondono a determinati numeri
Le vocali non corrispondono a nessuna cifra, quindi non vanno considerate;
Le consonanti doppie equivalgono a un unico suono;
Una nota storiella per ricordare le prime 32 cifre decimali del pi greco (3,14159265358979323846264338327950):
(a ogni parola in maiuscolo è associata uno, due o tre numeri)
«Una TROTA ALPINA voleva volare fino in CIELO, ma prima di partire si mise la MAGLIA, perché aveva paura del freddo: una vera FOBIA. Arrivata in quota incontrò un'OCA, dalla cui coda mancavano delle PIUME. Gliele aveva strappate uno GNOMO VORACE, che quando non mangia oche si sazia divorando NOCI, noci che coglie dai RAMI coperti di MUFFA, sporcandosi la MANICA vicino al POLSO.»
Un’altra storia per ricordare il Peso atomico dell’idrogeno (1,00797094202593):
«DUE oche nuotavano in una verde OASI mentre Gino il contadino sollevava con forza un’ASCIA sommerso dagli schizzi d’ACQUA dei bianchi bipedi. Sulle ali piumate delle belle oche si posava un’APE dal pungiglione appuntito come un AGO, ignara della presenza di Gino il contadino, che spaccava con forza un’ASSE di un vecchio tavolo. Al botto dell’ascia, l’APE sorniona volava nell’ARIA posandosi sul muso di un cane: sembrava un NEO giallo e nero. Sull’USCIO di casa la moglie di Gino il contadino filava la lana con tanta NOIA e l’ALA dell’ape faceva da lente d’ingrandimento per le pulci del cane. Il sole tramontava, arrivava il BUIO e saliva il sipario sui sogni dell’UOMO».
SCRITTURA
AL FEMMINILE
Rubrica aperta a tutti
IL RINASCIMENTO:
Donne colte, Poetesse e Cortigiane /5
Isabella di Morra 1520 ca – 1547 ca
di Ivana Moser
Isabella di Morra, una vita breve e infelice.
I versi di Isabella vengono riscoperti, rivalutati e pubblicati nel secolo scorso dal critico letterario Benedetto Croce che, incuriosito dalla loro particolarità, ne riconosce il valore di poesia petrarchesca.
Isabella nasce da una famiglia nobile verso il 1520 nel castello di Favara (odierna Valsinni), zona remota in Basilicata (MT). Nel 1528 il padre è costretto all’esilio in Francia, dal quale non tornerà mai più. L’assenza del padre e la speranza del suo ritorno caratterizzano fortemente la poetica di Isabella: D’un alto monte onde si scorge il mare/ miro sovente io, tua figlia Isabella,/ s’alcun legno spalmato in quello appare,/ che di te, padre, a me doni novella./ Ma la mia adversa e dispietata stella/ non vuol ch’alcun conforto possa entrare/ nel tristo cor, ma, di pietà rubella,/ la calda speme in pianto fa mutare./ Ch’io non veggo nel mar remo né vela/ (così deserto è lo infelice lito)/ che l’onde fenda o che la gonfi il vento.[…]
Isabella cresce nella solitudine del castello paterno, sotto la tutela dei fratelli rozzi e incolti, che la tengono segregata come in una fortezza militare. Trova rifugio alla sua misera esistenza nello studio di Petrarca e dei classici latini e nella scrittura, seguita da un precettore. Quest’ultimo, mosso a pietà, favorisce lo scambio di corrispondenza fra Isabella e il poeta spagnolo Diego Sandoval de Castro di un feudo vicino. Che tra i due poeti si sia instaurata una semplice corrispondenza letteraria, o che ci fosse una vera relazione amorosa, non si saprà mai. Quel che è certo è che le dicerie giungono alle orecchie dei fratelli di Isabella che attuano una sanguinosa vendetta: uccidono il precettore, Isabella e il poeta. La produzione poetica di Isabella Morra a noi pervenuta sta in un breve Canzoniere, composto da dieci sonetti e tre canzoni.
Anima delicata e gentile, Isabella vede inesorabilmente sfiorire la sua giovinezza nell’inospitale realtà del luogo natio e affida ai versi la disperata confessione della sua sofferenza e l’invettiva contro la Fortuna: Ecco ch’un’altra volta, o valle inferna,/ o fiume alpestre, o ruinati sassi,/ o ignudi spirti di virtute e cassi,/ udrete il pianto e la mia doglia eterna./ Ogni monte udirammi, ogni caverna,/ ovunq’io arresti, ovunqu’iomova i passi;/ chè Fortuna, che mai salda non stassi,/ cresce ogn’or il mio male, ogn’or l’eterna./ Deh, mentre chì’io mi lagno e giorno e notte,/ o fere. o sassi, o orride ruine,/o selve incolte, o solitarie grotte,/ ulule, e voi del mal nostro indovine,/ piangete meco a voci alte interrotte/ il mio più d’altro miserando fine. Il lamento continua in altro sonetto:
Fortuna che sollevi in alto stato/ ogni depresso ingegno, ogni vil core,/or fai che ’l mio in lagrime e ’n dolore/viva più che altro afflitto e sconsolato. […] Son donna, e contra de le donne dico/ che tu, Fortuna, avendo il nome nostro,/ogni ben nato cor hai per nemico.
In altra canzone la Fortuna è definita crudele ed empia.
Alla triste condizione di solitudine, isolamento e disperazione segue più tardi la rassegnazione cristiana: Scrissi con stile amaro, aspro e dolente/ un tempo, come sai, contra Fortuna[…] Or del suo cieco error l’alma si pente,/ che in tai doti non scorge gloria alcuna/ e se de’ beni suoi vive digiuna/ spera arricchirsi in Dio chiara e lucente./ Né tempo o morte il bel tesoro eterno,/ né predatrice e vïolenta mano/ ce lo torrà davanti al Re del cielo./ Ivi non nuoce già state né verno,/ ché non si sente mai caldo né gielo./ Dunque ogni altro sperar, fratello, è vano.