MAURITANIA,
la memoria delle sabbie.
Nomadi sulla via
delle antiche biblioteche
del deserto.
di Valentina Gobbi
(un racconto in due puntate)
Oro. Maestose dune dorate, luminose, quasi abbaglianti. Cangianti e imponenti sotto la luce algida di un’alba, morbide e setose, illuminate da un tramonto che le accarezza piano, come per accompagnarle a dormire. Freddo. Portato dalla notte, improvviso, impone di coprirsi alla svelta, di cercare tepore, di trovare riparo dentro la piccola tenda, divenuta casa per quel breve tempo. Un senso di pacata sicurezza, chiusa nel leggerissimo involucro, vibrante sotto il vento del deserto. Sibili. Silenzi. Il vuoto. La notte che arriva rapida, a chetare ogni cosa. Un io sempre più piccolo, ma sempre più in pace.
A proteggerti da un orizzonte che potrebbe travolgere di vertigine per il suo infinito sguardo, le dune di Aouja, nell’Erg Amatlich, diventano le pareti di un’accogliente stanza e abbracciano il tuo smarrimento e la tua timida paura, facendo emergere un senso sommesso di felicità e di stordimento, una forma di appagante estraneità. Un click, quasi troppo rumoroso nel silenzio che ti circonda, spegne la fedele torcia, tenuta comunque a portata di mano. Il buio è un elemento con il quale hai poca confidenza e stasera non c’è la luna a rischiarare la sabbia fredda della notte. Sabbia capace di cambiare la forma delle cose, di mutare paesaggi, di coprire storie, di seppellire memorie transitate tra le sue dune. Di far perdere tracce e di smarrire la rotta, se non ci fossero gli arabeschi luminosi disegnati dalle stelle, di cui il popolo Tuareg è un profondo conoscitore. Dentro la percezione di assoluto il deserto diviene luogo, essenza di una unione universale tra l’uomo e l’immensità.
Deserto testimone senza voce nella storia dello spostamento dei popoli, compagno nel movimento dei nomadi, sentiero faticoso per le carovane che attraversavano il continente creando commerci e scambi mercantili e culturali, ancora oggi mantiene il suo sguardo sull’incessante cammino migratorio che trova, proprio nell’uomo, la sua più spietata frontiera. Guardi il deserto e senti pulsare la forza imperante di una natura sovrana, elegante nelle sue forme sinuose, brutale nella solitudine e nell’aridità che può divenire morte, sorprendente nella vita che sprigiona quando poche gocce d’acqua ristorano l’apparente sterilità del suolo. Senti scorrere immagini e assenze, rumori e silenzi, storia e solitudini, carovane del passato e moderni passaggi migranti che si spezzano contro il delirio di una malvagia vanagloria incapace di accettare la naturale mescolanza dei popoli. Il deserto oggi ci accoglie e ci porta lontano, come un terapeutico distacco dalla frenesia contemporanea. La stessa verso la quale si muovono le attuali migrazioni, spesso rischiando tutto, anche la vita. Incrocia storie di nomadi moderni, chi alla ricerca di un silenzio intimo e di comunione con l’infinito, in un perenne movimento guidato dalla curiosità del mondo, chi alla ricerca di un futuro migliore, giovani uomini così forti da intraprendere viaggi disumani intrisi di sofferenza e crudeltà. L’uomo sembra non avere paura di misurarsi con la durezza della natura, meravigliosa ed estrema nei suoi elementi, e sembra non avere paura di mettersi in cammino verso la spietatezza di una umanità refrattaria a pietà e sentimenti, convinto forse di ritrovare le basi di una comunità sociale di sostegno e incapace di immaginare quanta malvagità possano riservargli i propri simili.
Deserto ancora una volta testimone, come lo fu per le memorie di un passato fulgente, nelle antiche città carovaniere sahariane. Oggi, luoghi in rovina, abbandonati, nuovamente ricoperti dalla sabbia che riporterà lontani silenzi sulla storia di questi mondi. Sembra che gli interventi dell’UNESCO per cercare di mantenere vive queste fragili città, riportando alla luce architetture e storia, siano serviti a poco, complici le recenti guerre e il terrorismo estremista nell’area del Sahel, la crisi politica, la mancanza di lavoro e, non ultima, la siccità.
“Tre metri fa”, si potrebbe dire, gli ultimi scavi dell’UNESCO del 2003, tentavano di riportare alla luce affascinanti città come Chinguetti, una delle città sante dell’Islam che, fino al 1899, dava il nome all’intera regione, con ben dodici moschee, ora sommerse, e oltre venti madrase, all’apice di uno splendore che la vedeva sede della più antica università dell’Africa occidentale, come ci raccontano le remote biblioteche.
Un passaggio d’obbligo, un centro di smistamento per tutte le carovane, le famose azalai, che coprivano il percorso verso il Marocco, l’Algeria, il Mali ed il Senegal. Si racconta che in un solo giorno si videro transitare, qui, 32.000 dromedari!
(fine della prima parte)
OSSERVATORIO LINGUISTICO
Rubrica aperta ai contributi
di tutti gli interessati
Asini, tartarughe e
paradossi
di Giancarlo Marchesini
Buridano. Vi ricordate dell’asino di Buridano, la povera bestia protagonista di un paradosso tradizionalmente attribuito al filosofo Giovanni Buridano (1295-1300 circa – 1361)?
L’asino, affamato e assetato, si trova a distanza esattamente uguale da due mucchi di fieno e due secchi d’acqua. Incapace di decidere da quale mucchio cominciare a mangiare e da quale secchio cominciare a bere, muore miseramente di fame e di sete. Qualsiasi persona di buonsenso penserà che l’asino, agendo sulla base di un istinto primordiale, comincerà a mangiare e bere senza preoccuparsi di fare valutazioni raziocinanti. Come dire che la legge di Darwin vince sempre. L’istinto di sopravvivenza è innato in tutti gli esseri senzienti e probabilmente persino negli organismi monocellulari.
Intelletto e volontà. Il paradosso si pone come una critica al razionalismo: secondo Buridano l’intelletto è sempre in grado di indicare all’uomo quale sia la scelta giusta tra le diverse alternative. E se putacaso, le alternative fossero costituite da due elementi identici, l’uomo (e l’asino con lui), per sopravvivere, sceglierebbe di non scegliere. Insomma, farebbe un atto di volontà.
Leibniz dice la sua. Approfondiamo lo “strazio decisionale” dell’asino con Leibniz, il quale, commentando il paradosso, afferma che, in natura, non esistono, come avviene invece in matematica, due realtà perfettamente identiche e che quindi l’azione umana è sempre determinata da una precisa causa, magari a noi sconosciuta, ma decisiva.
Sì, ma Zenone? Abbiamo salvato capra e cavoli (o meglio asino e cavoli)? Aspettiamo ad esserne sicuri e passiamo ad un altro paradosso, quello di Zenone di Elea (V secolo a.C.): Achille e la tartaruga. Immaginiamo una gara di corsa fra il piè veloce Achille e una tartaruga. Achille ha perfino dato un vantaggio alla tartaruga ma essendo lo spazio fra i due “concorrenti” composto da un numero infinito di punti non riuscirà mai a raggiungere il piccolo rettile, simbolo stesso della lentezza. Questa almeno era la conclusione cui giungeva Zenone sulla base delle conoscenze matematiche di allora. Ovviamente il filosofo si rendeva conto che, nell’esperienza pratica, non ci voleva certo un piè veloce per raggiungere la tartaruga: sarebbe bastato un qualsiasi essere umano, ancorché lento.
Il calcolo infinitesimale. Il dubbio di Zenone sarebbe stato sciolto da Leibniz con la teoria del calcolo infinitesimale (o forse da Newton: non lo sapremo mai perché fra i due infuriò una polemica sulla “primogenitura” della scoperta). Non mi chiedete cosa sia il calcolo infinitesimale, so solo, relata refero, che è una branca fondante dell’analisi matematica e che poggia sull’algebra, la geometria analitica e la trigonometria. Ma almeno sappiamo che il Piè veloce può raggiungere e superare, matematicamente di pieno diritto, la tartaruga.
Basta sofismi. Bello sforzo, direte voi, è ovvio che Achille è il più veloce, non c’è bisogno di scomodare grandi scienziati per saperlo. Proprio questo è il punto: certe volte è necessario accettare l’ovvietà senza farsi condizionare da un esasperato raziocinio. Cosa spinge un cittadino a votare per l’uno o per l’altro partito, anzi per l’uno per l’altro personaggio politico? Cosa spinge un essere umano a scegliere un compagno o una compagna per la vita? Fino a che punto intervengono intelletto e volontà e fino a che punto siamo guidati da impalpabili alchimie dei sentimenti?
Ferormoni in azione. Gli animali decidono facendosi guidare dai ferormoni. Gli esseri umani sono soggetti agli stessi istinti ma cercano di camuffarli (o, per essere gentili, sublimarli) parlando di amore, dedizione, attaccamento, approvazione, ecc.
Attenti ai paradossi ragazzi (e ragazze). Scioglierli o cercare di capirli può essere pericoloso: viviamo i nostri paradossi senza preconcetti e senza crucciarci su cosa mangeremo o berremo per prima cosa o su quanto sia veloce il nostro intelletto.
Tornano in mente le parole di John Lennon: la vita è quello che ti capita quando sei occupato a fare altri progetti!
Libertà
Chiudo gli occhi
Apro le braccia
Inizio a saltare
Dalla mia bocca
Un dolce suono va nell’aria.
Guardo lontano
I miei occhi brillano
Troppi colori
Troppa luce
Il cuore batte forte
L'anima mia sobbalza
Posso correre libera
Tra alberi e fiori
Uno scoiattolo saltella
Una lumaca lenta
Si arrampica sulla corteccia
improvvisamente
Abbraccio un vecchio
Albero
L'energia entra in me
La felicità sale nella mia mente
Sono libera!
Rita Salimbeni
Ardea, 10 giugno 2024