OSSERVATORIO LINGUISTICO
Rubrica aperta ai contributi
di tutti gli interessati
Aurea mediocritas
o eccellenza taroccata?
di Giancarlo Marchesini
Prima di tutto un chiarimento etimologico. La nostra parola mediocre deriva dal latino. In questa lingua significa qualcosa che sta a metà fra due estremi. Nella classificazione dantesca degli stili mediocre è quello medio fra l’umile e il sublime.
Orazio... È quindi chiaro che quando Orazio (Carm. II 10) parla di Aurea mediocritas intende moderazione, il fatto di distanziarsi dagli estremi. I versi del poeta latino esortano infatti a disdegnare tanto una casa squallida e diroccata che una reggia sontuosa.
… e noi. Ma nella lingua che parliamo ogni giorno mediocre indica una misura inferiore alla media ed è quindi sinonimo di scarso, insufficiente.
Il prof di latino. Ricordo ancora il mio professore di latino che restituendoci le versioni corrette mi diede un 6? commentando il mio lavoro come mediocre. Io risposi. Ma professore mi ha dato più di 6 e lo definisce mediocre? E lì mi dovetti sorbire una dotta dissertazione sul significato del termine. Quel professore avrebbe oggi 190 anni ed apparteneva a una classe sociale elevata. Chi, oggi, direbbe più che un 6 ? è un voto mediocre?
Mediocritates taroccate. Il nostro mondo è pieno, però, di mediocrità contrabbandate come auree e che in fondo sono soltanto delle mediocrità da 5, se non da meno! Basti pensare alla radiotelevisione, ai giornali, ai rotocalchi e a tutte le notizie che affollano internet. Dopo la Lotteria di Capodanno, viene Sanremo, seguito dal Carnevale, poi Pasqua, le gite scolastiche di primavera, la Festa della Repubblica, Ferragosto, i vari ponti di Ognissanti, il Black Friday (ormai diventato un appuntamento commerciale italiano) e poi Natale, i Cenoni e… si ricomincia daccapo. (Scusate: ho dimenticato il campionato di calcio).
Tutte queste “feste comandate” non sono di per sé deleterie o nocive, non lo erano, almeno prima dell’avvento degli “aureisti”, coloro che dicono che è tutt’oro quel che riluce.
Un pubblico formattato. Rai 1 ha presentato ultimamente la miniserie Giacomo Leopardi, il poeta dell’infinito. Al successo di pubblico si contrappone la critica (feroce) di Aldo Grasso (esperto ultrablasonato del Corriere della Sera) che ha parlato di una parodia involontaria del poeta e letterato recanatese. Il regista della miniserie si è difeso affermando che il suo prodotto è esattamente quello che dovrebbe proporre la Rai, un ente di servizio pubblico che si misura con il mercato (Netflix ad esempio) creando così uno spartiacque.
Pesi e misure. È una questione di pesi e misure. Stando ai risultati dell’audience la Rai ha colto nel segno ma l’audience è costituita da un pubblico che la televisione nazionale ha plasmato, formattato alla ricerca di un tornaconto commerciale. Il pubblico è ormai assuefatto a cercare lo spettacolo, che si tratti di un terremoto, di un incendio, di un assassinio, di un ostaggio, di un atto terroristico, di un femminicidio, omicidio stradale o di una guerra: tutto viene organizzato, ammannito in funzione dell’audience, quella magica misura che decreta il successo o l’insuccesso di una trasmissione.
Estetica vs. Glamour. L’estetica, come scienza del bello, è ormai sostituita dal glamorous, il luccicante, lo scintillante, suadente. Abbiamo ormai dimenticato il valore della sofferenza, che può essere sublimata a un livello estetico. Chi guarda più Ladri di biciclette, chi ascolta più brani struggenti come Barcarolo Romano? Non è più permesso essere tristi: occorre fare finta di essere felici, nascondere l’amarezza e i rimpianti, identificandosi coi personaggi rutilanti che popolano le nostre riviste, le nostre “inchieste televisive” (solo di nome, in realtà gossip allo stato puro), seguire il dibattito nazionale sul prossimo conduttore di Sanremo (!).
D’accordo, cito esempi vecchi di cent’anni, potete accusarmi di essere una Vox clamans in deserto, ma il deserto è quello che i poteri forti hanno costruito per voi.
Il mondo dietro le sbarre
L’occasione del Giubileo 2025, Anno Santo dedicato al tema della speranza, ci invita a riflettere su questa virtù profonda. Sperare, infatti, non è un atto di semplice ottimismo, come quando desideriamo superare un esame universitario o speriamo in una giornata di sole per una gita primaverile. No, sperare è attendere qualcosa che tende al raggiungimento di un bene futuro difficile ma non impossibile da realizzare.
Ed è proprio questa speranza, sottile ma potente, che emerge nella poesia di Armando (nome di fantasia), una speranza che resiste e cresce in un mondo "parallelo" al nostro: quello del carcere.
Ivana D’Amore - 3. 2025
Pareti alte, sporche,
che opprimono l’animo.
Gabbie di uno zoo
Che non bloccano l’immaginazione.
Scale che non portano su,
ma sempre più giù.
Corridoi senza finestre,
nel buio più tetro
forte batte il cuore.
Chiudi gli occhi,
aspetti la fine.
La speranza
batte la morte.
Domani risorgerà il sole.
Allarghiamo le braccia
per catturare il tepore…
MARC’ANTONIO INGEGNERI
“compositore tra due mondi”
di Cristian Alderete
Così viene definito dal musicologo Iain Fenlon,
Marc’Antonio Ingegneri, (Verona, 1536 - Cremona, 1º luglio 1592) maestro della cosiddetta scuola romana, di cui il maggiore esponente è stato Giovanni Pierluigi da Palestrina e le cui opere vennero considerate per secoli come modello ideale di musica polifonica.
LA SCUOLA ROMANA nella storia della musica, comprende una serie di compositori attivi a Roma nel XVI e nel XVII secolo, dal tardo rinascimento all'età barocca. Molti di questi furono attivi nelle cappelle musicali di Roma e nella Cappella musicale pontificia, ma operarono anche nel campo della musica secolare. Ed è qui la sfortuna di Ingegneri, e cioè di essere stato contemporaneo di Giovanni Pierluigi da Palestrina e
maestro di Claudio Monteverdi.
“I due mondi” evocati da Fenlon fanno riferimento a questioni di epoche, stili, dispute teoriche e grandi accadimenti storico-religiosi, come il Concilio di Trento e i suoi espliciti richiami a quegli ideali estetici e artistici che auspicavano una semplificazione del linguaggio polifonico e una maggiore sobrietà espressiva a vantaggio di una più chiara intelligibilità del “sacro testo”.
I mottetti a quattro voci di Marc’Antonio Ingegneri, pubblicati nel 1586, testimoniano l’adesione dell’autore e dell’ambiente ecclesiastico cremonese, ove divenne maestro di cappella del duomo nel 1581. Le composizioni si mantengono entro lo stile della polifonia imitativa che contraddistingue tutta l’opera di Ingegneri, così come questi l’andava insegnando a Claudio Monteverdi e agli altri allievi della cerchia cremonese. Ne risulta così una raccolta variegata, stilisticamente coerente e aperta a numerose occasioni dell’anno liturgico.
Vinea mea electa
La musica di Ingegneri si presta ancor oggi a essere ottimamente eseguita da cori professionali e amatoriali che desiderino ampliare il proprio repertorio oltre le voci più consuete del repertorio classico rinascimentale.
Per l’occasione prendiamo uno dei responsori della settimana Santa, brano che si esegue il venerdì per la precisione, di delicata e raffinata bellezza cui titolo è Vinea mea electa. Tratto dal testo di Isaia, spiega pienamente l’argomento della Crocifissione con forza sconvolgente la cui traduzione non ha bisogno di commenti per l’attualità del contesto drammatico.
Vigna mia prediletta, io ti ho piantato:
come sei diventata amara,
che mi crocifiggi e lasci libero Barabba?
Io ti ho protetta,
e ho tolto le pietre da intorno a te
ed ho costruito una torre.