Simposio
L’ESTATE
Sta arrivando! Una colonia di ombrelloni in fila ordinata per proteggere dai raggi infuocati colora e anima le spiagge.
Il mare ritrova la tranquillità e abbandona le sue lunghe onde spumeggianti sulla battigia, come un invito ai bagnanti; la sabbia si trasforma in un caldo e accogliente tappeto sul quale distendersi e ritrovare un contatto con la terra, liberatorio e rilassante. Giochi, grida e turbinìo di voci animate sembrano lontane dai problemi quotidiani. Che allegria questa festa di colori e di voci spensierate! Anche il silenzio dei solitari poeti sembra trovare nell’improvvisa confusione il senso vitale di un risveglio dopo la lunga stagione invernale, come una rinascita attesa e necessaria. Alle spalle, forse, l’incubo che stiamo vivendo da oltre un anno, un pericolo che sembra entrato nell’oblìo. Ma non per chi vive ancora giorni penosi e difficili, non dimentichiamolo.
Giuliana
CECITÀ
Un caso di coscienza?
di Ornella Ferrari Pavesi
Alessandro D’Avenia “L’Appello”, 2019
Romanzo che ho letto recentemente volutamente digiuna di aiuti critici perché, come d’abitudine, non voglio essere influenzata dai giudizi di letterati esperti, ma unicamente da me stessa. Solo in un secondo tempo, dopo aver fatto mia la narrazione, mi avvicino alle pre e postfazioni per avere una conferma, o una smentita, della mia interpretazione. Ho scoperto così che il protagonista de “l’Appello” è un professore affetto da cecità degenerativa alle prese con un gruppo di alunni problematici che si concedono ad un Appello tattile del viso attraverso cui il protagonista impara a conoscerli non solo esteriormente, ma soprattutto intimamente, applicando le leggi della fisica alla sfera della loro interiorità. Così facendo capovolge in opportunità ciò che era percepito come negatività esistenziale. Questo il succo del romanzo in cui il concetto di cecità è inteso non come limitazione, ma come opportunità di luce interiore e di liberazione da un sé costrittivo.
José Saramago “Cecità”, 1995
È stato quindi naturale ripensare al romanzo del premio Nobel nel 1998 in cui l’autore descrive l’improvviso diffondersi di una anomala epidemia di cecità dove gli occhi non sono oscurati dal nero, ma da un bianco luminoso. A differenza de “l’Appello” a sfondo intimista-educativo, “Cecità” ha un intento sociale in quanto descrive l’uomo che, privato di appigli visivi, precipita nel caos, preda di istinti primitivi che lo degradano alla condizione di bestialità. Non vado oltre per lasciare, a chi vorrà leggerlo, la scoperta di pagine “illuminanti” in cui l’autore fa dire ad uno dei protagonisti “Eravamo già ciechi nel momento in cui lo siamo diventati, la paura ci ha accecato, la paura ci manterrà ciechi”.
Il tema della cecità e i grandi ciechi
Un tema questo affrontato da molti scrittori e poeti, alcuni ciechi loro stessi, come Jorge Luis Borges, ad esempio. Miope dalla nascita e cieco in età matura, accetta la sua condizione, anzi la sublima, paragonando l’ombra che avanza alla dolcezza dell’eternità.
Per Joao Cabral, poeta e diplomatico brasiliano, la cecità fu un dramma che lo colse di sorpresa negli ultimi sette anni della sua vita, rifiutandosi di scrivere o ascoltare letture da altri perché gli procuravano troppa sofferenza. Finì i suoi giorni in una modesta casa sulla spiaggia di Rio de Janeiro senza essere riuscito ad avere il Nobel, per cui era stato candidato.
Non così per James Joyce che, ritenendo la sua malattia un castigo divino, non si arrese ad essa ma continuò a scrivere dettando le sue opere e ascoltando le letture dalla voce di altri.
Per Giovanni Pascoli, autore delle liriche “Il cieco”, “Il fringuello cieco” e “Il cieco di Chio”, la cecità permette di esplorare una dimensione diversa delle cose al di là dell’apparenza.
Come ci insegna Omero, il cui nome in greco significa “ colui che non vede” e che la tradizione vuole cieco. Nell’Odissea, Omero esalta la cecità come opportunità di veggenza e strumento di redenzione.
Demodoco, il cantore alla corte di Alcinoo re dei Feaci, con il suo canto commuove Ulisse fino alle lacrime riscattandolo da un’umanità ritenuta persa.
A Tiresia, l’indovino di Tebe punito con la cecità per aver visto Atena senza vesti, viene concessa la veggenza anche oltre la morte.
Infine Polifemo di cui tutti conosciamo la storia, accecato dallo scaltro Ulisse che, sfruttando l’ingenua arroganza del ciclope forte della sua superiorità fisica, lo priva dell’unico occhio nonostante sia figlio di un dio.
Termino questo excursus letterario sulla cecità con Andrea Camilleri, il padre del commissario Montalbano, che affetto da cecità senile ci ha regalato un bellissimo e commovente monologo su Tiresia al teatro greco di Siracusa pochi mesi prima di lasciarci.
Una grande lezione
Per concludere vorrei tornare alle sopracitate parole di Saramago su cui ritengo si debba meditare perché spiegano come sia la cecità interiore a costruire barriere, paura, differenze, pregiudizi, guerre e violenza. Viviamo in una società in cui il culto del materialismo è diventato il fruitore di tutte le nostre attenzioni, creandoci irrinunciabili bisogni a discapito della nostra umanità e delle piccole felicità che la arricchiscono. Saramago ci suggerisce di affidarci ad una cecità luminosa, bianca come il latte, per risanare la frattura fra noi e il mondo che ci circonda, onde recuperare la nostra essenza oltre i confini dell’ovvio.
Guardiamoci dentro, ci dicono Omero, Pascoli e D’Avenia, travalichiamo le ombre e ciò che riteniamo scontato anche a costo di soffrire. Perché la sofferenza fa parte di noi e diventa luce se rinunciamo a codificarla in canoni materialistici, trasformandola in opportunità di vita e di insegnamento. Non sono una filosofa, il mio è solo un incipit per un invito a sviscerare il tema “cecità”, oggi più che mai attuale, anche da un punto di vista esistenziale, non solo fisico. Tanti sono gli agganci da cui prendere spunto: religiosi, filosofici, sociali, persino tecnologici. A questo punto non mi resta altro che augurarvi buona lettura e buon lavoro.
La vecchiaia
(è questo il nome che gli altri le danno)
può essere il tempo della nostra felicità.
L’animale è morto o è quasi morto.
Rimangono l’uomo e la sua anima.
Vivo tra forme luminose e vaghe
che non sono ancora le tenebre.
Buenos Aires, che prima si lacerava in suburbi
verso la pianura incessante,
è diventata di nuovo la Recoleta, il Retiro,
le sfocate case dell’Once
e le precarie e vecchie case
che chiamiamo ancora il Sur.
Nella mia vita sono sempre state troppe le cose;
Democrito di Abdera
si strappò gli occhi per pensare;
il tempo è stato il mio Democrito.
Questa penombra è lenta e non fa male;
scorre per un mite pendio
e assomiglia all’eternità.
I miei amici non hanno volto,
le donne sono quel che erano molti anni fa,
gli incroci delle strade potrebbero essere altri,
non ci sono lettere sulle pagine dei libri.
Tutto questo dovrebbe intimorirmi,
ma è una dolcezza, un ritorno.
Delle generazioni di testi che ci sono sulla terra
ne avrò letti solo alcuni,
quelli che continuo a leggere nella memoria,
a leggere e a trasformare.
Dal Sud, dall’Est, dall’Ovest, dal Nord,
convergono i cammini che mi hanno portato
nel mio segreto centro.
Quei cammini furono echi e passi,
donne, uomini, agonie, resurrezioni,
giorni e notti,
dormiveglia e sogni,
ogni infimo istante dello ieri
e di tutti gli ieri del mondo,
la ferma spada del danese e la luna del persiano,
gli atti dei morti, il condiviso amore, le parole,
Emerson e la neve e tante cose.
Adesso posso dimenticarle. Arrivo al mio centro,
alla mia algebra, alla mia chiave,
al mio specchio.
Presto saprò chi sono.
Jorge Luis Borges
SUL PRINCIPIO
DELLE COSE
Spazio aperto alle riflessioni di tutti
L’UOMO DI FANGO
di Adriana Cosma
Nella mitologia religiosa sumera, la prima che ci sia giunta per iscritto, (poiché i sumeri hanno inventato la scrittura discorsiva non solo segni e simboli) An il re del cielo è capo degli Annunaki dei assoluti dell’universo serviti dagli Igigi semidei.
Gli Igigi stufi di servire gli dei chiedono al figlio di An: Enki di creare un sostituto. Enki prende della creta e col il sangue del dio della conoscenza We crea un pupazzetto da sembianze umane e gli soffia l’anima “l’Umunnu”.
In Egitto un mito antichissimo contemporaneo circa agli altri due un certo Merina crea una foggia umana dall’argilla, lo modella e lo rende vivo.
Com’è noto esiste la leggenda ebraica del Golem un pupazzo di fango creato per servire e animato da parole magiche. Non si sa come queste leggende si trasformano nella creazione dell’uomo nella genesi biblica da fango, acqua e soffio divino. Poi gli studi alchemici portano al concetto di Homunculus, un piccolo “uomo in miniatura” creato attraverso oscuri processi alchemici. Infine al Frankestein di Mary Shelley, un uomo fatto di pezzi umani. Appare curioso che esistano due strade per l’esistenza dell’uomo ideate dall’uomo stesso: l’origine dal fango e animata da dio o l’origine umana “del manufatto” che giunge fino alla scienza con la clonazione. La