curiosità consiste nel constatare che mai l’essere umano immagina sé stesso come parte armoniosa del mondo in cui vive e interagisce, ma sempre come una “cosa” nata per mano di un artefice divino o umano. Poco importa se, noi poveri umani siamo accompagnati da un senso di pochezza e di frustrazione bel lontana dai momenti di grandezza umana che se pure può giungere ad apici di crudezza, è la realtà di un grande momento di lirica universale. È quell’universo pensante, che riflette su di sé ed è artefice dell’esistenza nella trasformazione e rielaborazione del principio vitale che solo i poeti, i mistici e gli scienziati intuiscono e ne hanno compreso tutta la grandezza.
IN PUNTA DI PENNELLO
La vita di Carla Fracci appare comprensibile all’artista che una volta terminato il quadro,
per un istante, è capace di intuirla
Intervista al maestro Gianluca Venezia.
Una stanchezza vigile, capace di ascoltare anche a distanza, senza perdere una parola, nonostante il caldo e la calca di persone assiepate intorno, un pomeriggio di quattro anni fa. Abito bianco e corallo antico tra stucchi e vetrate, cassettoni e pavimenti pregiati di palazzo S.Carlo, Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta, una raffinata villa settecentesca che porta il nome dell’omonimo teatro napoletano.
Carla Fracci è l’ospite d’onore. Gianluca Venezia l’artista che l’ha ritratta . «Ero stato chiamato per la presentazione di una sua biografia: “Passo dopo passo”, che si teneva in un magnifico salone dedicato a lei. Per l’occasione mi avevano commissionato il ritratto. Ricordo l’espressione e la naturalezza che ebbe nel dire di sentirsi come davanti a uno specchio tanto forte era la somiglianza. Ricordo la sua stanchezza mascherata dall’incedere leggero. Lo sguardo attento rimandava sensazioni di forza. E quell’interiorità percepita attraverso le braccia e le mani, la grazia con cui accompagnava i gesti alle parole. Misurata e sicura di sé. Una regina».
Cosa ti ha colpito
«Il momento in cui è arrivata. Spandeva energia e si avvertiva la presenza fisica, nonostante fosse esile e scarna dava l’idea di una estrema solidità. E ne era consapevole. Quel pomeriggio c’erano le mamme che portavano le figlie in processione da lei. Una di loro chiese: “quale consiglio può dare a mia figlia” e lei: “ma che domande sono. Deve esercitarsi. Deve lavorare. E tanto”. Era così Carla Fracci, diretta, concreta, ironica, unica, era la perla della sua ostrica.».
E durante la serata
«Cercavo di non perdere neanche un dettaglio. Ero felice di starle vicino. L’ho anche rassicurata quando guardandosi ha detto: “certo con il tempo si cambia, io mi sono rotta il naso purtroppo e adesso non ho più un bel profilo”. Si era espressa in maniera pensosa, senza alcuna eco di vanità».
Come è andata la realizzazione del quadro, avevi dei vincoli
«No, estrema libertà, solo la cornice doveva essere ovale. Ho impiegato giorni a cercare la posa giusta fino a trovare uno scatto fatto al Vittoriale pochi mesi prima, nella casa di D’Annunzio, a Gardone del Garda, era l’immagine che cercavo, intensa e quasi ispirata. A quel punto il più era fatto e sono andato veloce, olio su tela, con una mano quasi febbrile».
Tu hai viaggiato molto, sei anche scenografo, passi dal restauro antico al figurativo, dagli affreschi (suoi sono molti soffitti decorati in dimore patrizie del centro di Roma ndr) al ritratto iperrealista, con tutte queste esperienze che tipo di linguaggio senti più tuo
«Mi piace il confronto con la materia, le stoffe, i colori, la luce di un terrazzo, il sedimento della polvere su una pala del ‘400. Mi piace assaporare la realtà. Ecco perché i ritratti. Attraverso una faccia c’è l’interpretazione della vita di quella persona. Bisogna avere un rispetto assoluto, nel viso non vedo solo segni o mappe di nei ma anche il resto, tutto. I suoi geni, i suoi nonni, la mamma, il padre. Capisco che il quadro è finito quando sulla tela appare tutto questo e in quell’istante mi commuovo».
Emanuela Irace
Con piacere metto a disposizione questa intervista, chiedo cortesemente che sia citato il seguente link
http://www.noidonne.org/articoli/carla-fracci-in-punta-di-pennello.php
OSSERVATORIO
LINGUISTICO
Rubrica aperta ai contributi
di tutti gli interessati
Espressioni idiomatiche
“Fa tremar le vene e i polsi”
di Giancarlo Marchesini0
Nel mezzo del cammin di nostra vita…
La prima espressione idiomatica che analizzeremo nella nostra rassegna ci viene dalla Divina Commedia (noblesse oblige). Nel primo canto dell’inferno Dante si rivolge a Virgilio dicendogli: “Vedi la bestia per cu’ io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi”. Con una straordinaria ipotiposi Dante ci mette di fronte a un animale mitologico, la lonza (latino linx), che lo fa indietreggiare (mi volsi) e gli impedisce l’ascesa al colle dietro il quale sta sorgendo il sole, simbolo della grazia divina. Dal punto di vista allegorico la lonza rappresenta la lussuria, una delle predisposizioni peccaminose a causa delle quali Dante si è ritrovato nella “selva oscura”.
Vene, polsi… e arterie
Ma perché tremano le vene e i polsi di Dante? Il significato della parola “vene” è chiaro per tutti. Ma in questo verso della Commedia i polsi (latino pulsus = battito, colpo) indicano la pulsazione e quindi quella parte del sistema circolatorio (le arterie) in cui si produce la spinta del sangue (e che noi, comuni mortali con la “pressione alta”, misuriamo con lo sfigmomanometro). Dante non pensava assolutamente alle “vene che si trovano nei polsi” ma all’insieme delle vene e arterie. Da un punto di vista linguistico l’espressione dantesca viene considerata un perfetto esempio di endiadi (figura retorica che esprime un concetto tramite due termini coordinati (es.: fare fuoco e fiamme).
Citazioni a sproposito
L’espressione Fa tremar le vene e i polsi ha una lunga storia di citazioni erronee o infedeli: se ne sono lette e sentite di tutti i colori: le vene dei polsi, le vene nei polsi, le vene ai polsi. Si confonde l’italiano polsi, in quanto parte dell’avambraccio, con il significato latino di pulsare che, come abbiamo detto dianzi, si riferisce allo scorrere del sangue nelle arterie. Il fatto che nei polsi si intravedano le vene ha indotto molti ad una interpretazione falsata di questi versi della Divina Commedia. Giornalisti, pubblicisti e uomini politici sono incappati in questo errore, storpiando il pensiero dantesco. Non voglio stare a elencare le numerose citazioni errate ma vorrei soffermarmi sulle ragioni che, ignoranza a parte, inducono a fare simili errori.
Un po’ di filologia
Gli amanuensi, i monaci benedettini che ricopiavano con cura infinita, ma spesso pedissequamente, gli antichi codici greci e latini si trovavano talvolta di fronte a costrutti che non capivano compiutamente, viste le loro limitate conoscenze delle lingue antiche. Di fronte a passaggi grammaticalmente complessi si permettevano quindi di interpretare i codici in modo a loro comprensibile variandone forma e contenuto. Dallo studio di questi testi “contraffatti” è nata l’espressione lectio difficilior che sta a indicare che, di fronte a versioni divergenti dello stesso codice, ricopiate da più monaci, il significato voluto dall’autore greco o latino era sicuramente quello di più difficile comprensione e che l’amanuense aveva modificato a proprio uso e consumo.
Povero Dante!
Lo stesso criterio filologico si applica alle storpiature “le vene dei polsi”, le vene nei polsi” ecc. Ciò che sconcerta è la prosopopea con cui alcuni personaggi in vista hanno deformato la citazione dantesca senza curarsi di andare a controllare nell’Inferno, che sicuramente hanno studiato al liceo (non si sa con quale profitto), O, se l’hanno fatto, si saranno detti “di fronte a un’espressione incomprensibile è meglio scegliere una versione più chiara per tutti. Magari è Dante che si è sbagliato a scrivere”! La lectio difficilior è un argomento filologico di cui non si capaciteranno mai. Di fronte a questa ignoranza ma, soprattutto, di fronte alla pervicacia che presiede alla sua diffusione, non ci resta che dire, col padre Dante, “non ragioniam di lor ma guarda e passa”.
E se vi ho dato voglia di andarvi a rileggere la Divina Commedia avrò già ottenuto un buon risultato.
ROMA CAPITALE D’ITALIA
Fine del potere temporale papale
18ª parte
di Francesco Bonanni
A causa delle vicende riguardanti la successione al Trono del Regno di Sicilia Papa Bonifacio VIII avviò una doppia trattativa sia con Filippo IV di Francia che con Carlo di Valois sollecitando una spedizione in Sicilia
Bonifacio VIII e Filippo il bello
hanno un difficile rapporto causato da un doppio motivo. Uno squisitamente politico: l’Alleanza del Re di Francia con Roberto d’Asburgo e con gli odiati Colonna; l’altro puramente ecclesiastico, collegato alle Immunità Ecclesiastiche e al Fisco del Clero. La goccia che fece traboccare il vaso fu l’arresto del Vescovo Bernardo, personaggio legato al Papa. Bonifacio ordinò al Re l’immediata liberazione convocando una riunione del Clero francese invitando lo stesso Filippo il quale, pur acconsentendo di rilasciare Bernardo, vietò ai Vescovi francesi di parteciparvi.
La scomunica del re di Francia
fu la reazione del Pontefice insieme al tentativo, fallito di mettergli contro il Re di Inghilterra. Riuscì invece nella politica di avvicinamento nei confronti di Roberto d’Asburgo che fu nominato Re dei Romani.
Di contro Filippo convocò a Parigi un’Assemblea per accusare e giudicare Bonifacio VIII di una lunga serie di crimini: eresia, simonia, omicidio, incesto, sodomia e furto. Nel frattempo il Cancelliere francese Guglielmo di Nogaret strinse un’alleanza con Giacomo Colonna (detto “Sciarra”) e l’Aristocrazia di Anagni.
Il 2 settembre del 1303 mentre Bonifacio stava per emanare la Bolla Pontificia “Super Petri solio” per la scomunica del Re di Francia. Nogaret venendone a conoscenza, insieme a Sciarra Colonna e le sue truppe, alle luci dell’alba del 7 settembre entrò in Anagni, facilitato dal tradimento di alcuni Anagnini che provvidero a lasciare aperte le porte della città. La città fu saccheggiata e introdottisi nel palazzo pontificio il Papa fu arrestato, imprigionato e umiliato da parte di Sciarra e di Nogaret per indurlo a ritirare la Bolla di Scomunica e a dichiarare l’abdicazione. Fu proprio durante questa detenzione che, secondo la diffusa vulgata, subì da parte di Sciarra l’oltraggioso “schiaffo”. Fu, in realtà, una breve detenzione. Solo dopo due giorni un gruppo di Anagnini, rimasti fedeli al Pontefice, prese le sue difese e lo liberò. Il pontefice dopo averli ringraziati li benedisse e rapidamente fece ritorno a Roma
Avignone, la nuova sede pontificia
L’episodio di Anagni poco tempo dopo diede il via libera al controllo dei Sovrani francesi sul Papato che si concretizzerà in breve tempo nel trasferimento della Sede Pontificia nella città francese di Avignone. L’oltraggio recato ad un Pontefice provocò reazioni di sdegno e di condanna anche da parte di molti avversari di Bonifacio. Lo stesso Dante, suo acerrimo ed irriducibile nemico, considerò l'offesa come rivolta a Cristo stesso .
«Perché men paia il mal futuro e 'l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un'altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.»
(Purgatorio, Canto XX, vv. 85-90)
Bonifacio rappresentò l’estremo Cesaropapismo ed è ricordato come l’ultimo Papa del Medioevo ed il primo Pontefice dell’Era Umanista.