Il Litorale • 8/2023
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Pag. 6 Il Litorale ANNO XXIII - N° 8 - 16/30 APRILE 2023
Da tanti anni il 25 aprile riapre la ferita della contrapposizione
Non c’è riconciliazione senza verità
Sono diventate il terrore delle stazioni ferroviarie e c’è chi le difende
Dieci piccole rom
Non è solo l’Italia che deve fare i conti con
un passato dittatoriale, non è solo il nostro
Paese che deve rileggere la realtà con il
metro della storia e non con quello della
cronaca ma, a distanza di 80 anni questo
obiettivo è lontano dall’essere raggiunto.
Questo accade perché, a differenza di qual-
che buon esempio di analisi storica, la poli-
tica continua ad alimentare l’odio della
contrapposizione. Per decenni abbiamo vis-
suto col sottofondo degli “ideali della resi-
stenza” e non di tutta resistenza ma solo di
quella connotata a sinistra: chi non ricorda i
rappresentanti della resistenza cattolica
cacciati e maltrattati durante manifestazioni
partigiane? La santificazione dei partigiani
non ha ancora permesso di conoscere tutti i
fatti che ne hanno caratterizzato le gesta, le
violenze; gli orrori che essi hanno commes-
so anche a guerra terminata furono definiti
“zone d’ombra, eccessi, aberrazioni” dal
partigiano Mario Palermo al secolo Giorgio
Napolitano pluri-Presidente della Repubbli-
ca. La revisione dei fatti e delle gesta sul
campo che la storia militare ha fortemente
ridimensionato. C’è un’area del nostro pa-
norama politico che resta aggrovigliata alla
resistenza e continua a misurare la nostra
evoluzione politica col metro del clima di
guerra e di contrapposizione. Si comme-
mora il 25 aprile, giornata nazionale della
liberazione e del ricordo della lotta antifa-
scista, sventolando bandiere rosse con la
falce ed il martello e si pretende di definire
fascista chi non vi aderisce. Al contrario di
ciò che accade in Germania, in Spagna, in
Portogallo ed in altri paesi che si sono la-
sciati dittature alle spalle, in Italia si conti-
nua a rifiutare una rilettura dei fatti e della
storia con la freddezza ed il distacco di chi
non l’ha vissuta direttamente, perché non si
è capaci di dare vita ad ideali nuovi e ad un
ambiente sociale realmente capace di ag-
gregare quando è in ballo il bene del Paese.
Questo è l’unico paese al mondo in cui il
Fascismo occupa ancora le prime pagine
dei giornali. Un esempio recente è quello
che riguarda la commemorazione di uno
dei fatti più tragici del nostro passato e cioè
l’eccidio delle Fosse Ardeatine, un fatto che
viene rigorosamente ricordato in salsa anti-
fascista. Vorrei ricordare i fatti senza espri-
mere giudizi. E’ il 23 marzo 1944, i tede-
schi occupano Roma dopo che l’8 settem-
bre 1943 l’Italia hafirmato un armistizio se-
parato con gli alleati, tradendo l’alleanza
con la Germania. Sono le ore 15,42 quando
l’11 compagnia di reclute del 3 battaglione
di Polizia Urbana denominato Bozen (Bol-
zano), in quanto composto da quelli che og-
gi sono cittadini italiani, marcia lungo via
Rasella, una via stretta del centro di Roma
a pochi passi dal Quirinale. Sono reclute
giunte a Roma da pochi giorni e sono di ri-
torno dal poligono di tiro di Tor de Quinto
dove stanno imparando ad usare le armi in
dotazione. All’altezza del civico 20 una de-
flagrazione fortissima, provocata da 18 chi-
li di tritolo, causa “il piu sanguinoso e cla-
moroso attentato urbano antitedesco in tutta
l’Europa Occidentale”.
Subito dopo l’attentato vengono lanciate
quattro bombe a mano e raffiche di mitra
per finire i superstiti. Risultato: 32 soldati
tedeschi uccisi e 6 civili italiani tra cui il
dodicenne Pietro Zuccheretti, nessun parti-
giano ha subito danni. L’attentato era stato
preparato e condotto da una cellula del
GAP, l’organizzazione partigiana del Parti-
to Comunista Italiano, colui che ha piazzato
il tritolo e schegge di metallo in un bidone
della spazzatura si chiamavaRosario Benti-
vegna, coloro che intervennero successiva-
mente sono una decina ed hanno nomi che
resteranno famosi come Carla Capponi,
Carlo Salinari, Franco Calamandrei nella
successiva storia del PCI. Alcuni di loro
hanno ottenuto medaglie al merito e c’è chi
è diventatodeputato del PCI per l’atto eroi-
co commesso. Quando il tragico fatto av-
venne vigeva a Roma la legge della “rap-
presaglia militare” e cioè una norma ecce-
zionale imposta dall’esercito occupante po-
sta in atto per evitare attentati. Tutti cono-
scevano questa norma anche perché veniva
divulgata continuamente al fine di dissua-
dere i cittadini dal colpire elementi dell’e-
sercito tedesco.
L’attentato provocò un grande scalpore e un
forte risentimento del colonnello Kappler
capo delle SS a Roma. Fu immediatamente
posta in atto la rappresaglia, furono prele-
vati 335 cittadini italiani,in gran parte dalle
carceri per reati non attinenti a fatti di guer-
ra ed il giorno successivo il 24 marzo 1944
furono condotti presso una cava di pozzola-
na in via Ardeatina e furono uccisi, evito
volutamente il termine giustiziati perché
tutta questa brutta storia con la giustizia
non ha niente a che fare. Oggi commemo-
riamo il 24 marzo nel ricordo di 335 vitti-
me innocenti proprio come il bambino Zuc-
cheretti e gli altri 5 italiani morti nell’atten-
tato ma come possiamo ricordare come eroi
gli attentatori che tutto questo hanno causa-
to sapendo di causarlo? Quando Rosario
Bentivegna nascondeva il sacco di iuta col
tritolo insieme a schegge di ferro ed al de-
tonatore dentro al carrello dei rifiuti e quan-
do i suoi compagni lanciavano bombe e
sparavano dai terrazzi vicini sapevano be-
nissimo che avrebbero inevitabilmente uc-
ciso anche decine di italiani per rappresa-
glia e passanti innocenti. Dove è l’atto eroi-
co? Perché gli attentatori non si sono costi-
tuiti alle autorità tedesche per evitare la tre-
menda rappresaglia?
Finché si vorranno spacciare questi come
atti eroici non si troverà mai la pace sociale
in questo Paese che, quando pensa agli eroi,
pensa ad Enrico Toti e Salvo d’Acquisto. Ci
furono processi contro gli attentatori di via
Rasella perché i familiari dei morti per l’at-
tentato non riuscivano a trovare una logica
in quella tragica azione e ci furono senten-
ze, discussioni e dibattiti condotti troppo
spesso in un’atmosfera assolutoria dettata
da una visione ideologica della realtà. Si è
giunti ad affermare di tutto ma nessuno po-
trà mai modificare il fatto che non si ingag-
giata una battaglia con un’unità nemica da
combattimento ma che si fatto deflagrare
un ordigno al passaggio di una compagna
di componenti dellapolizia sapendo che per
ognuno che sarebbe stato ucciso dieci ita-
liani lo avrebbero seguito. Si è messo in
dubbio che la rappresaglia fosse in atto, ma
questo è riconosciuto dal tribunale italiano
che, si noti bene, non condannò Kappler
per aver trucidato 320 italiani ma perché ne
uccise 335 e cioè per aver deciso di ucci-
derne 15 in più di quelli che la rappresaglia
prevedeva. Non ci sarà pace sociale in que-
sto Paese finché non saranno gli storici li-
beri a raccontare la storia.
Sergio Franchi
Le zingare rubano e praticano l’accattonag-
gio. Questo non si può dire, innanzi tutto
perché gli zingari non si devono più chia-
mare zingari se e vero come è vero che die-
ci piccoli negri sono diventati dieci piccoli
indiani, gli spazzini operatori ecologici, i
ciechi non vedenti ed gli storpi diversa-
mente abili. Da diversamente giovane trovo
tutto questo diversamente logico, perché ci
vedo come una necessità di camuffamento
che dovrebbe nascondere una sorta di ver-
gogna inesistente. E’ l’ipocrisia del “politi-
cally correct” quello che serve alla politica
per inventare un neologismo invece che da-
re soluzioni alle problematiche sociali. E
poi il termine zingaro ha una sua accezione
romantica e bizantina che meglio ne indivi-
dua la storia e l’etimologia; io non l’ho mai
inteso in senso dispregiativo finché qualcu-
no, dai piani alti, non mi ha comunicato
che si devono chiamare Rom. Non si devo-
no chiamare zingare quindi e, tanto meno si
può generalizzare che un gruppo etnico sia
costituito da ladri e da accattoni.
Ero alla metropolitana di Roma, fermata
Termini, alcuni giorni fa e ne ho viste a
frotte, come le cavallette muoversi con ra-
pidità tra la folla di studenti, impiegati e tu-
risti alla ricerca di quelli più imbranati,
spesso dei diversamente giovani e magari
spaesati dal luogo e dalla situazione. Erano
una decina, non erano giovani zingare ma
tutte rigorosamente giovani Rom. Ve ne so-
no ovunque nelle grandi stazioni, alcune
giovanissime sotto i 14 anni ed altre molto
più mature ma con un figlio in grembo per-
ché in tutti e due i casi in Italia c ‘è la li-
cenza a delinquere impunemente, ma ci so-
no anche altre che non ricadono in queste
due categorie ma restano anch’esse impuni-
te. Perché siamo in Italia. Ne è nato uno dei
tanti dibattiti che servono spesso solo a par-
lare d’altro e che verte sulla liceità di dif-
fondere in rete la presenza delle piccole la-
dre che imperversano particolarmente nelle
stazioni ferroviarie.
Diritto alla privacy, discriminazione etnica,
incitamento alla violenza, ne ho sentite di
tutti i colori: l’ex deputato PD/Italia Viva
Gianfranco Librandi, nella trasmissione di
Del Debbio, ha difeso la causa dei Rom ri-
cordando che essi hanno fatto la lotta parti-
giana e rivendicando per tutti loro un lavo-
ro ed una casa; l’opinionista Wladimiro
Guadagno in arte Luxuria ha ribadito che
non si può criticare chi ruba nelle stazioni
se questo si identifica in una critica alla lo-
ro appartenenza etnica ed un’assessora del
Comune di Milano rivendica il diritto di
precedenza dei Rom sull’assegnazione de-
gli alloggi popolari. Aria fritta. C’è da ri-
manere di stucco. Ma questi e gli altri ben-
pensanti che perorano concetti così nobili
nei confronti delle aggressive rappresentan-
ti delle classi deboli che assediano la gente
nelle stazioni, si rendono conto che quelle
sono ladre e non sono loro le più deboli? Si
rendono conto di quanto male esse fanno
specialmente alle persone fragili che si
muovono con lentezza nella frenesia di una
massa umana che ha fretta? Ai portatori di
handicap che si muovono con difficoltà?
Quanto danno provocano alle tante persone
anche modeste a cui rubano il portafogli
con danaro e documenti? Quanto danno ar-
recano all’immagine del nostro Paese? Si
rendono conto che quelle ragazze sono
mandate a rubare da padri e mariti a cui de-
vono consegnare il bottino quando tornano
a casa? Che modo è quello di fare politica
se si è costretti a criticare chi punta il dito
verso coloro a cui il nostro sistema giudi-
ziario concede di trattare con arroganza le
istituzioni ed i loro rappresentanti? E’ legit-
tima difesa.
Quando si avrà l’onestà intellettuale di af-
fermare che quello del nomadismo incon-
trollato, che mostra la propria immagine
plastica nella vergogna dei campi nomadi,
è un problema sociale e che i Rom, o alme-
no quella larga parte di essi che vivono vo-
lutamente ai margini, devono rispettare le
regole oppure essere costretti a farlo. La
vergogna di quanto ho avuto personalmente
occasione di osservare nella stazione di Ro-
ma-Termini non può essere più tollerato in
un Paese occidentale. L’integrazione è un
processo alimentato dall’energia di chi
vuole integrarsi e dalla volontà di essere
parte di un consesso. I Rom vivono un per-
manente status di rivendicazione sociale
contro gli italiani che vedono con astio e
spesso con odio; con qualche eccezione da
parte di coloro che hanno la cittadinanza
italiana. Integrarsi per la grande parte dei
Rom non significa lavorare duro nel per-
corso di recepire le norme che regolano la
società in cui sono inseriti. Se si chiede ad
un Rom perché non lavora o perché abita in
una baracca vi risponderà che aspetta che
qualcuno gli dia un lavoro e che gli dia un
alloggio e gli paghi le utenze. Alcuni co-
muni hanno tentato di soddisfare queste ri-
chieste ma hanno fallito miseramente, tante
sono le case “occupate” abusivamente e so-
no trasformate in bivacchi. Nelle vicinanze
di un campo Rom i furti ed i danneggia-
menti sono moltiplicati, la sicurezza delle
persone non è più garantita e le condizioni
igieniche sono al livello di degrado totale.
Quelle tante zingare che però dobbiamo
chiamare Rom sperando che così rubino di
meno, sono solo la punta di un iceberg che
nasconde molto di più. E’ una situazione
che si è incrostata in decenni anche per col-
pa di amministratori illuminati come la
Sindaca Raggi che pretendeva che essi tor-
nassero in Bosnia o da quelle parti, tanto da
pagare loro il viaggio; peggio ancora per
l’idea illuminata del suo successore che si è
messo in testa di dare a tutti i Rom una par-
tita IVA, un finanziamento per aprire
un’impresa, un alloggio e un permesso di
soggiorno, che poi mi sembra non sia una
prerogativa dei Sindaci ma della Prefettura.
Immagino che goduria da parte delle mi-
gliaia di cittadini romani che si alzano ogni
mattina e non sanno che cosa metteranno
sulla tavola. Una mentalità ed una forma di
relativismo politico che cambia il nome
agli zingari ma che non risolve il problema,
che è un problema di chi è costretto a sub-
ire la loro asocialità ed a pagare i loro con-
ti. Se il cambio dei nomi deve avere un si-
gnificato allora anche passare da “Paese”,
“Repubblica”, “Stato” a quello di alto valo-
re etnologico di “Nazione” dovrà pur signi-
ficare qualcosa in termini di democrazia
basata sul rispetto delle regole.
Sergio Franchi
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