OSSERVATORIO LINGUISTICO
Rubrica aperta ai contributi
di tutti gli interessati
Consenso linguistico e
aspettativa naturale
di Giancarlo Marchesini
Una confessione. Leggo molto, moltissimo, prevalentemente saggistica, ma una delle mie fisim eè la rilettura dei classici. Quest’anno ad esempio è il turno, dei grandi romanzi russi. Se riesco a completare il ciclo 2024 l’anno prossimo sarà dedicato alla letteratura francese. Vi confesso, però, che la mattina quando arrivo barcollando alla macchina del caffè, non ho voglia di letture serie. I miei processi mentali non si mettono in moto prima della seconda tazza di caffè. E nel mio torpore, nonostante l’immersione nella caffeina, non sono in grado di riprendere le pagine lasciate la sera prima (nella fattispecie I demoni di Dostoevskij).
Una mia debolezza. Uno dei miei punti deboli è la letteratura fantasy alla quale sono dedicate le primissime ore del mattino. E proprio in questi giorni sto leggendo un romanzo che ha fatto scattare questa riflessione sul consenso linguistico e l’aspettativa naturale.
Consenso… Il consenso linguistico è in un certo senso il cemento della lingua. Quando una persona si esprime in un modo simile o apparentato con il mio, le riconosco l’appartenenza alla cultura italiana. Se questo consenso viene tradito o deformato (esempio; pioveva a bacinelle invece di pioveva a catinelle) mi troverò con tutta probabilità di fronte a uno straniero che non padroneggia le nostre espressioni idiomatiche.
…e dissenso. L’autrice del fantasy “incriminato”(non ne faccio il nome né indico il titolo dell’opera per rispetto della privacy) si serve molto spesso della locuzione “se non che”. Si tratta di una congiunzione subordinativa con valore eccettuativo (Vocabolario Treccani) ma nel racconto il suo uso risulta molto esteso e tecnicamente improprio.
Scelte personali. A titolo di esempio, riporto, completa di segni d’interpunzione, una frase del testo; “Se non che un lampo di luce improvviso li fece trasalire. Anna non riuscì a credere ai propri occhi”. Stupisce l’uso della subordinativa seguita da una frase all’indicativo. Il valore avversativo di “se non che” non apporta nulla all’economia della frase. Questo stile, questo modo molto personale di usare“se non che” non risponde alla mia aspettativa naturale. A ciò si aggiungono l’uso sviante di forme verbali (scorse, usato come passato remoto di scorrere che si confonde facilmente con una forma del verbo scorgere o costrutti a mio parere, incompleti (Non avete la minima idea di chi sia il vostro avversario o di che cosa sia in grado).
Leggendo una frase del tipo alzò un dito in sua direzione mi immagino un tedesco che tenti di parlare italiano. Una menzione tutta particolare va poi riservata all’uso dell’espressione ricorrente in punta alle scale (invece che: in cima alle scale).
Dal particolare al generale. Si sa diffondendo in tutta Italia il modo di dire vado a lavoro. Una ragazza americana che conoscevo anni fa diceva “vado a chiesa” (I go to church) ma io mi aspetto da sempre, che un parlante italiano dica vado in chiesa e al lavoro. Perché questa mutilazione della preposizione “al”? A cosa è dovuta? Ricerca di concisione? Volontà di contenuti nuovi? Ho perfino annotato un caso in cui mentre l’attore doppiatore dice correttamente. “Mettevi al riparo”, i sottotitoli recitano “Mettetevi a riparo”.
La letteratura fantasy stenta a essere riconosciuta come genere autonomo ma quello che mi interessa è che è molto più vicina a un parlare colloquiale di quanto non siano Kafka, Proust o Bertrand Russell e che quindi rispecchia l’anarchia che contraddistingue il nostro linguaggio attuale.
A meno che non si tratti di una scelta motivata, o di un particolare idioletto, l’autrice che ha scritto in punta alle scale deve aver sentito da qualche parte questa espressione. Esiste quindi una comunità di parlanti che la adotta. Sarebbe interessante verificare se si tratti di un regionalismo o di una scelta diastratica (di una certa parte della popolazione). L’evoluzione della lingua è inarrestabile, nessuno è responsabile dell’uno o dell’altro cambiamento, ma tutti lo siamo collettivamente nel momento in cui lo accettiamo. È quella che io definisco una fruttuosa anarchia che contraddistingue l’italiano di oggi da altre lingue che adottano invece modelli molto più rigidi (il francese) o che si fondono su radicate espressioni idiomatiche (l’inglese).
Recentemente l’Accademia della Crusca ha dichiarato che espressioni del tipo “esco il cane” e “scendo la spazzatura” sono accettabili, purché restino confinate a un italiano colloquiale. Ma l’italiano colloquiale riempie i nostri blog, e ci sarà certamente qualcuno che vorrà erigere queste due espressioni a italiano standard appoggiandosi alla “sentenza” della Crusca. Visto che predichiamo l’anarchia, la nostra autrice ha tutto il diritto di usare il suo stile e ognuno di noi resta libero di dire vado al lavoro” e “in cima alle scale”. Personalmente ho la tentazione di bruciare questo prodotto letterario se non che lo sto leggendo su un iPad che mi è costato più di 1.000 euro. Al massimo potrò cancellarlo dalla mia libreria digitale!