La fantascienza di Calvino
La fantascienza di Calvino non è di sicuro quella di Guerre Stellari, bensì una fantascienza surreale, basata su piccole storie incredibili, spolverate di filosofia esistenziale, tuttavia, facilmente comprensibile, nonché di immancabile ironia.
“Le Cosmocomiche”, infatti, è composto da 12 piccoli capitoli, narranti le avventure di Qfwfq, un alieno, che le racconta in prima persona, cercando di spiegare i misteri della vita e dello spazio ad ascoltatori immaginari e ai lettori, nel modo più leggero possibile. “T con Zero” non può essere definito con esattezza il séguito de Le Cosmocomiche in quanto solo la prima parte è collegata col primo romanzo, mentre la seconda è fondata su storie ambientate nel mondo reale, sebbene molto paradossali.
Ne parlerò più in dettaglio nel prossimo articolo
Magritte e la sua
riflessione sul
linguaggio
di Vincenzo Corsi
1929, esce “Le parole e le immagini” di R. Magritte,
un testo emblematico e fondamentale per quanto riguarda le riflessioni sul linguaggio del pittore in cui possiamo leggere:
“Un oggetto non è mai tanto legato al suo nome che non se ne possa trovare un altro che gli si adatti meglio”.
1966, esce “Le parole e le cose” di M. Focault,
Magritte dopo averlo letto in una lettera all’autore scrive: “L’immagine pittorica di una fetta di pane con marmellata non è sicuramente né una fetta di pane vera né una fetta di pane finta”. Emblematica della concezione del pittore è sicuramente l’opera “La trahison des images”, nella quale compare la scritta “Ceci n’est pas une pipe”.
“Ceci n’est pas une pipe” in questa scritta Magritte ci dice che la rappresentazione della pipa non è sicuramente una pipa. Tutto ciò esprime una impossibilità di raggiungere l’essenza delle cose, ma è proprio la consapevolezza di questa sottile differenza tra una cosa e la sua rappresentazione che ce la fa intuire profondamente.
Questa “matrioska del linguaggio”, questa riflessione profonda si fa ancor più chiara e al contempo complessa ne “I due misteri”, ove le due pipe rappresentate si fanno indagine infinita sul senso stesso del linguaggio e dei suoi principi.
Dice Focault: “Quante sono le pipe? Due? Oppure due rappresentazioni della pipa? Oppure una pipa e la sua rappresentazione?”.
“Epifania della realtà”
Questo induce l’uomo ad una sorta di “misticismo del linguaggio” in cui l’indagine della parola si fa veicolo di una realtà il cui senso induce ad una contemplazione estatica di un oltre sconosciuto dagli infiniti significati che superano la superficialità di credere di avere delle certezze. Questa problematizzazione del significato dell’immagine attraverso una didascalia “distonica” che smentisce l’evidenza del significato dell’immagine, conduce ad una rivelazione, una epifania della realtà che guida lo spettatore al risveglio spirituale. Ci libera dalle catene di una pigra abitudine che ci porta ad essere ingannati nella lettura delle immagini secondo una similitudine che distrattamente percepiamo come identità tra l’immagine dell’oggetto e la sua essenza profonda, essenza questa, quasi inarrivabile.
Comprendere Magritte è una opportunità
“La filosofia - dice Foucault: è il movimento con cui ci si stacca - non senza sforzi, esitazioni, sogni e illusioni - da ciò che è acquisito come vero, e con cui si va alla ricerca di altre regole del gioco.
La filosofia è lo spostamento e la trasformazione delle cornici di pensiero, la modifica dei valori ricevuti, tutto il lavoro che si fa per pensare diversamente”.
Il pensiero creativo e divergente verso cui la lettura di Magritte ci induce resta una risorsa estremamente importante che, se accolta da tutti, ci porterebbe sicuramente verso una dimensione esistenziale e sociale assolutamente migliore.
OSSERVATORIO LINGUISTICO
Rubrica aperta ai contributi
di tutti gli interessati
La macchinetta e il pressappochismo
di Giancarlo Marchesini
C’era una volta la parola “macchinetta”, un termine universale applicabile a praticamente tutti quegli strumenti che oggi vengono definiti, con fare saccente e sussiegoso, con la parola inglese “device”.
La macchinetta. La prima volta che ho sentito la parola macchinetta (stiamo parlando di 60 anni fa) era per definire gli accendisigari a gas Ronson che erano in voga fra i pariolini d’alto bordo. Ma le applicazioni di questa parola multiuso si estendevano anche alla macchinetta del caffè (oggi definita moka per distinguerla da esemplari più evoluti) e alle macchinette fotografiche (oggi fotocamere). Non so se i partenopei abbiano mai accettato il termine macchinetta per la loro ingegneristica “napoletana” ma non credo.
Bialetti. Cosa ci ha spinti ad abbandonare l’uso indiscriminato di questa parola? In parte il mondo degli affari e la grande distribuzione. Ricordate l’Omino con i baffi che compariva regolarmente nei Carosello degli anni ’60? Sappiate che questo simpatico personaggio ha fatto balzare le vendite delle caffettiere Bialetti da 1.000 unità annue a 4 milioni per poi giungere, all’apogeo del successo commerciale, alla cifra iperbolica di 300 milioni. Ma mai, che io sappia, l’Omino con i baffi ha parlato di “macchinetta”.
La parola al linguista. Motivazioni commerciali a parte, come considerare da un punto di vista linguistico il progressivo e ormai definitivo abbandono della parola macchinetta? La linguistica fa una distinzione fra iperonimi e eponimi. Gli iperonimi sono unità lessicali generiche (fiore perrosa). Gli iponimi, invece, sono unità lessicali specifiche che restringono il significato di un termine generico.Così, a parte la gloriosa “napoletana”, l’iperonimo macchinetta veniva usato, tanti anni fa, per parlare di accendino, fotocamera o caffettiera.
La lingua evolve. Gli italiani sono spesso accusati di pressappochismo e il termine passe-partout macchinetta potrebbe essere usato come esempio probante di queste critiche. Ma, ma, ma… Siamo noi stessi, gli italiani, ad avere abbandonato con gli anni la “macchinetta”: questo processo segna una maggiore consapevolezza di tutti gli aspetti della vita: dal fumo al caffè, alla fotografia ma anche alla politica, all’informatica, al settore assicurativo e medico. Insomma… a tutto. Identifichiamo ormai gli oggetti con le loro caratteristiche tecniche o specifiche. La lingua “ritaglia” la realtà con modi che le sono propri e ogni lingua lo fa seguendo il suo estro interno. I tedeschi vengono normalmente considerati come modelli di precisione e accuratezza. Ma attenzione! La parola Gericht identifica sia il cibo servito ad un pranzo che… un tribunale! Due aspetti della vita, due mondi, che possono convivere soltanto nella lingua che ha creato il termine Weltanschauung!
Deutschland überalles. Volete un altro esempio, sempre chiamando in causa quegli ineffabili tedeschi che trovano sempre nuovi modi per accusare di faciloneria l’Italia e gli italiani? (Ricordo, en passant, che secondo un adagio ben noto in Germania, l’acronimo FIAT significa “Tecnologia alla portata degli italiani” (FürItalienerausreichendeTechnologie.)
Polli e vitelli. Intorno agli anni ’70-‘80, giornali, radio e TV (internet non c’era) parlarono con insistenza di uno scandalo alimentare: gli animali da macello venivano fatti ingrassare con i cosiddetti ormoni della crescita, poi vietati nel 1988 da un provvidenziale regolamento dell’Unione Europea. Questi anabolizzanti lasciavano nei cibi residui ormonali che causavano alterazioni a carico dell’apparato riproduttore maschile e femminile. In quell’occasione la stampa tedesca lanciò fuoco e fiamme contro la “carne agli ormoni” (Hormonenfleisch). Quei “faciloni” dei giornalisti italiani, invece,descrissero lo scandalo con maggiore cognizione di causa e professionalismo: CARNE AGLI ESTROGENI. Iperonimi contro eponimi, mentalità contro mentalità, visione del mondo contro Weltanschauung.
Lingua, parole e idee. La lingua ritaglia la realtà e si fa portatrice di idee. E siamo noi, con le parole e le idee,a descrivere, suddividere e compartimentare gli oggetti che la costituiscono. Lasciatecela ritagliare come piace a noi, signori critici, e guardate piuttosto quello che succede a casa vostra.
CURIOSITÀ NELLA POESIA/32
di Sergio Bedeschi
ALLORA, ANDIAMO A CAPO OPPURE NO? /2
Insomma nel fare poesia, siamo liberi di andare a capo quando vogliamo o no?
La questione non è così banale come potrebbe sembrare a una prima occhiata. Prova ne sia che c’è gente che ci si è messa di buzzo buono per trattare la questione.
LUIGI ARISTA LO CONOSCI?
ALLORA, ANDIAMO A CAPO OPPURE NO? /2
Insomma nel fare poesia, siamo liberi di andare a capo quando vogliamo o no? La questione non è così banale come potrebbe sembrare a una prima occhiata. Prova ne sia che c’è gente che ci si è messa di buzzo buono per trattare la questione.
LUIGI ARISTA
LO CONOSCI?
Beh, vai in rete se vuoi incontrarlo. Soltanto in rete, perché purtroppo se n’è andato, non vecchissimo, solo qualche anno fa. Scrittore, critico, studioso, poeta, in ogni caso appassionato cultore della Bellezza. Da me molto apprezzato, l’hai capito. Se c’è uno che non ha lasciato niente per strada, che tutto ha analizzato, studiato, criticato, ebbene questo è proprio lui. Ci ha scritto pure un trattato sopra l’argomento: occhio al sottotitolo: “L’importanza del ritorno a capo in poesia”. E una delle cose più significative e più sintetiche che ha detto sull’argomento è stato senz’altro quella di suggerire di “andare a capo quando te la senti di andare”. Niente di geniale dunque, anzi qualcosa di molto semplice che “lo sapevamo già da prima”. Qualcosa come suggerire di seguire il canto del tuo cuore. Non per niente egli parla e insiste sulla cantabilità. E come no?
POETI O CANTORI?
Ci sarà stata pure una ragione per la quale Dante ha chiamato le sue imprese Cantiche! E così il Leopardi, e così San Francesco d’Assisi col Cantico delle Creature. Per non dire del Canto dei Cantici della Bibbia.
E potevo poi mancare anch’io a questo
appuntamento, intitolando la mia Silloge il
Canto delle Nuvole? Perché: Pubblicare le proprie poesie è il sogno di molti. Ma per l’autore…