SIMPOSIO
PERSONE PERSONALITÀ EROI
Compagni di solitudine riscoperti. Il vicino della porta accanto che salutavamo frettolosamente ogni mattina mentre correvamo al lavoro, ora scopriamo essere una persona piacevole con la quale scambiare qualche pensiero. Il vecchio simpatico compagno, con i suoi biglietti che il postino ci consegnava ad ogni fine anno e ai quali avevamo smesso di rispondere, amico del cuore messo da parte per le troppe incombenze del vivere quotidiano, ora con nostalgia ci richiama alla mente anni trascorsi insieme tra ansie e gioie di trascorse passioni di gioventù. E il superbo eroe dei libri di scuola dimenticati nello scaffale più alto, quell’eroe che ci faceva sognare di essere come lui, coraggiosi e forti. E la vecchia buona zia, sempre ansiosa per le nostre faccende, che a malapena ascoltavamo in quelle sbrigative telefonate fatte per dovere. I racconti del nonno, i suoi ricordi lontani nel tempo, così noiosi e che dopo quell’attimo di condiscendenza interrompevamo alla prima occasione.
Ora, proprio ora, sono proprio tutti loro che stanno trasformando la nostra solitudine e dando un senso alle nostre conversazioni non appagate dal frenetico scambio di pensieri preconfezionati. Sorrisi genuini e puri appaiono tra parole di autentico affetto in conversazioni spontanee, rispettose nell’ascolto e nella condivisione o diversità d’opinione. Ed è bello rivivere quelle fantasticherie che riaffiorano con l’eroe dei tempi perduti, considerate tra le debolezze della giovanile età. Mondi lontani si sono riallacciati al nostro presente attraverso i ricordi del nonno e le sue fatiche per campare o della zia quando era giovane e bella. Quello svolgersi delle vicende umane, legate al filo della storia di tutti noi, che pur nella dimenticanza non possiamo interrompere.
Giuliana
Venerdì 1° gennaio 2021
L’aura nel concerto
1° gennaio, ore 17:00
Ho appena seguito in differita RAI il concerto di Capodanno dei Wiener Philharmoniker, il famoso ensemble che ogni anno invita un eminente direttore d’orchestra per curare l’esecuzione di noti brani musicali. Quest’anno il salone tutto ori del Musikverein era vuoto, senza pubblico, popolato unicamente nel golfo mistico e sul podio, épidémie oblige. Riccardo Muti, il direttore invitato quest’anno, ha commentato questo evento anomalo nella storia dei Philharmoniker affermando che la musica non può fermarsi perché è portatrice di cultura. La salute è importante – ha detto – ma dobbiamo coltivare anche la nostra salute mentale.
Un bel concerto… senza pubblico
Tutto vero, tutto logico, decisioni adamantine. Ma la vista della sala assolutamente vuota, addobbata come al solito con migliaia di fiori e con i grandi lampadari accesi, è stata straziante. Certo, il direttore e i musicisti hanno dato il meglio di se stessi, la scelta dei brani, tutti particolarmente focosi, invitava all’allegria. Ma è restata per me l’amarezza di ciò che veramente mancava: la musica esiste nel momento dell’esecuzione, non nella partitura, e l’esecuzione presuppone un pubblico, perfino il pubblico di Vienna, un amalgama elitario di austriaci e stranieri che sfoggiano toilette eleganti anche se assistono ad una matinée.
Un pubblico che si ciba di musica per poi andarsi a rimpinzare di Sachertorte nel vicino Café. Ma è un pubblico che, come vuole la tradizione, si lascia coinvolgere (anzi, si direbbe che ci vada proprio per quello) dalle note della Radetzky-Marsch che conclude ritualmente il concerto, battendo le mani al ritmo dei timpani e ottoni di Johann Strauß padre (che, da bravo reazionario, celebrava con questo brano la riconquista di Milano dopo i moti del 1848). Nel salotto di casa mia, davanti alle immagini della televisione, ho tentato di battere le mani per vitalizzare, nella mia mente, il concerto ma ho smesso subito, nella stretta degli eventi che ci costringono ad assumere comportamenti inediti, amari e dolorosi.
Precauzioni, ossessioni e reazioni
L’epidemia ci ha insegnato la dimensione virtuale delle comunicazioni: abbiamo la mail, whatsapp e altri mezzi informatici che ci permettono di parlare gli uni agli altri e di vederci sullo schermo del computer o del cellulare. Ma quando incontriamo un amico per strada sappiamo che, mascherina o no, è più prudente osservare la distanza di un metro e che non dobbiamo assolutamente stringergli la mano. Un sorriso sotto la mascherina è appena percettibile dall’increspatura del tessuto ma resta comunque morto sotto quel “sudario di sicurezza”.
Sono andato a leggere i commenti al concerto dei Philharmoniker: sembra che milioni di persone lo abbiano seguito in televisione e che Muti e i suoi musicisti abbiano beneficiato di un corale applauso virtuale. Ma questo succedeva anche gli anni passati: l’applauso dei telespettatori corroborava e amplificava quello del pubblico in sala. Quest’anno, però, non c’è stato applauso in sala, non c’era il pubblico.
Un po’ di teoria
Walter Benjamin ha teorizzato un elemento imponderabile dal punto di vista fisico, ma importantissimo, che si affianca all’opera d’arte: l’aura. Che differenza c’è fra vedere la Gioconda al Louvre, magari da lontano e dietro barriere di vetro, e guardare una riproduzione perfetta del capolavoro di Leonardo? Nel secondo caso manca, appunto, l’aura: la consapevolezza di trovarsi di fronte a un’opera d’arte, di sentirne l’afflato e la risonanza interiore, il legame con l’artista. Così il concerto di Vienna in streaming è privo di aura, è un canone di interpretazione e non un evento. Ed è proprio quel velleitario, arrogante e insopportabile pubblico di presenzialisti che costituisce il trait-d’union fra l’evento musicale e i milioni di persone che lo seguono ogni anno grazie alla televisione.
Dal pragmatismo asburgico all’inventiva veneziana
Altra impostazione è stata quella del concerto di Capodanno della Fenice. Anche qui senza pubblico, come tristemente anticipano le lunghe sequenze dei canali di Venezia, deserti come non mai. Ma con un guizzo d’intelligenza gli organizzatori hanno collocato il coro sul palco, facendogli occupare anche tre piani delle balconate laterali, per dare l’impressione di un pubblico presente. La sala è stata completamente ristrutturata: invece che nel golfo mistico i musicisti avevano preso posto in platea. Tutti indossavano mascherine (meno, per ovvie ragioni, i fiati) e i cantanti che portavano fino al momento del loro ingresso in scena i cosiddetti “dispositivi di protezione” erano ben distanziati sul podio. Espedienti intelligenti e ben pensati. Come dire “fare di necessità virtù”.
Insomma, a 172 anni di distanza e proprio a Venezia, “il morbo infuria”, anche se non è il pane a mancare ma il pubblico. E il concerto della Fenice, per quanto bello e commovente, è una “bandiera bianca”.
Un pis-aller, come direbbero i francesi
Non illudiamoci. Le meraviglie della tecnica e dell’informatica, o un modo intelligente di presentare l’inevitabile, non salveranno la cultura, la musica e lo spettacolo. La musica e il teatro restano avvenimenti in presenza, l’aura lo richiede. Decenni di cinema ci hanno abituati a una realtà ricostruita, inventata e si potrebbe pensare che questa sia una nuova via all’arte performativa. Ma non confondiamo un certo cinema, che per assunto si pone come finzione, con lo spettacolo. Quello della Fenice (e in parte nella sua secchezza teutonica quello di Vienna) sono stati espedienti, sì intelligenti, ma che non potranno mai restituire il brivido interiore dello spettacolo, la sinergia che si instaura fra gli artisti e il pubblico.
Spero ardentemente che questi ripieghi culturali restino fatti isolati, che un giorno si possa tornare a godere il concerto dei Philarmoniker e quello della Fenice nei loro luoghi deputati, (almeno in televisione perché il prezzo del biglietto resta fuori della mia portata).
Come disse un tale nell’orto del Getsemani, “Padre, se puoi allontanare da me questo calice…”.
L’aura nel concerto/2
di Giuliana Bellorini
Trovo puntuale l’osservazione e il conseguente rammarico, la tristezza di Giancarlo, ma non condivido il pessimismo di fondo. Come egli sottolinea, è vero che pochi hanno il privilegio di godere dell’essenza dell’aura, ma non è detto siano i migliori, i più sensibili, intelligenti a cogliere tutta la freschezza del prodotto appena sfornato e consumato. Mentre in tanti si sentono da tempo di non essere esclusi, di poter approfittare come non era mai successo nella storia. La “Gioconda” è il feticcio che convince del privilegio di coloro che non sanno godere della vera realtà del genio, della particolarità della tecnica sublime trasformata come in un processo alchemico che arricchisce il nostro spirito.
Venezia, oltre alle voci e alle musiche scelte di un brillante repertorio di opere liriche della tradizione, ha saputo reinventare lo spazio. Senza pandemia non sarebbe successo di vedere trasformata la platea in un esclusivo spazio per l’orchestra e il suo direttore, Daniel Harding, signore incontrastato incoronato dal palco reale. Commovente la diligente osservazione delle norme di sicurezza, con l’utilizzo di mascherine ricamate con lo stemma della Fenice, capaci di dare un tocco in più di raffinatezza in una sala trasformata come un giardino lussureggiante. Un’atmosfera compiuta di lietezza e gioia per gli astanti, contemporaneamente musicisti e spettatori applaudenti.
Il soprano Rosa Feola e il tenore Xabier Anduaga hanno dato il meglio di loro stessi e l’eleganza di lei, esaltata da quegli splendidi abiti, appagava anche l’occhio del poco competente di musica seria, obbligandolo senza che se ne rendesse conto ad ascoltare con piacere suo malgrado. Un’opera d’arte di scenografia la regia che motivava ad andare avanti, continuare, dimostrare che ci si può reinventare.
Vienna ha esibito, nonostante la prestigiosa direzione di Riccardo Muti, il consueto protocollo di capodanno che nel rispetto della tradizione non ammette fantasie, se non quelle ripetitive del copione e dello spartito voluto dall’artista. Quei rigidi cuscini floreali che adornavano il vuoto e accompagnavano il concerto come alle sue esequie.
Che tristezza.