Dal libro “Pomezia-Origini-Genti-Personaggi” realizzato nel 1990 dal professor Antonio Sessa ed edito dalla Angelo Capriotti Editore
Il ritorno nella terra promessa
“Nel 1935 mio padre Virgilio - racconta Pietro Bisesti - partì dalla Bosnia volontario, con il fratello e un gruppo di paesani, per combattere la guerra di Etiopia sotto la bandiera italiana.
Pur essendo nati in Bosnia, avevano conservato la tradizione e l’amore per la patria lontana. Furono inviati a Littoria, dove restarono un mese per addestrarsi. Mio padre vide queste zone fertilissime, dove il grano era alto come un uomo e lo “zaldo” (il granoturco) era alto come due uomini; fu in quel periodo che mio padre decise di ritornare in Italia. Alla fine della guerra rientrarono tutti in Bosnia, e furono proprio quei combattenti a costituire il primo nucleo che si propose di sollecitare e organizzare il ritorno in Italia, e più precisamente nelle terre dell’Agro.
La mia famiglia, costituita da mio nonno Giovanni Bisesti con la moglie e i figli, fra i quali naturalmente mio padre Virgilio, arrivò con il primo gruppo di coloni il 14 gennaio 1940; a essa venne assegnato il podere n. 2766, dove rimase 111 giorni. Poiché si trattava di una famiglia numerosa, nella quale fra l’altro c’erano ex-combattenti, era possibile scegliere un podere più grande.
Per questo mio nonno e i figli maschi girarono in bicicletta tutta la zona, finché non arrivarono alle Monachelle, dove trovarono terra fertile.
Il podere era libero e gli venne subito assegnato dietro richiesta: era il numero 2904 , di 33 ettari. Mio padre, che già suonava e cantava in un coro nella chiesa di Mahovljani, si inserì subito nelle attività della parrocchia di Ardea, che aveva fra i suoi parrocchiani un gran numero di trentini.
In generale i rapporti con gli ardeatini erano sempre un po’ tesi. La nostra comunità era un gruppo forte, numeroso e organizzato; si sentivano italiani e volevano quindi inserirsi senza nessuna preclusione nella nuova realtà. Molto spesso, per la quantità e la qualità delle iniziative, si dimostravano più capaci dei locali; di conseguenza nascevano spesso discussioni e incomprensioni”.
Ci risulta che anche altre famiglie di coloni ebbero analoghi problemi. Certo non fu facile per nessuno, vecchi residenti e nuovi arrivati, adeguarsi a un insediamento così numeroso e improvviso su un territorio che per secoli non aveva subito apprezzabili trasformazioni.
Una scelta fortunata
La loro è una storia per tanti versi simile a quella dci trentini-slavi. Sudditi dell’Impero Austro-Ungarico, da Trecenta (Rovigo), emigrarono nel 1860 in Romania, a Cataloi nella provincia di Tulcia.
“Partirono in 60 famiglie - racconta Marco Manzini pioniere veneto-rumeno - per bonificare un vasto appezzamento di terreno. In poco tempo i nostri genitori resero fertili quelle zone e si insediarono in quelle terre vivendo quasi tutti da agricoltori.
Alla fine degli anni trenta il Ministero degli Esteri rivendicò la nostra cittadinanza italiana e, con la promessa di case e poderi, rimpatriammo nel mese di giugno del 1940. Restarono pochissimi, giusto coloro che si erano sposati con abitanti del posto.
Mi raccontò mio padre che, quando avevo appena un anno, salimmo tutti su un solo treno speciale che, passando per Trieste, ci portò a Santa Palomba dopo un viaggio che durò un giorno e una notte. Una parte delle famiglie scese in questa stazione; il resto continuò per Aprilia”.
Il fratello più grande di Marco, Pietro, così ricorda quegli anni “I primi tempi furono durissimi. Tutti noi avevamo lasciato in Romania casa e poderi; fu quindi duro ricominciare tutto da zero.
Dopo circa un anno lasciammo il podere che ci avevano assegnato (il 2845 sulla via Laurentina) perché mio padre, che conosceva il mestiere, aprì nel 1941 la prima bottega di barbiere a Pomezia. Si tratta del locale dove attualmente è il negozio di foto di Chiapponi. In seguito solo io ho continuato l’attività paterna.
Nel 1944, durante lo sbarco alleato, scappammo al campo profughi di Cinecittà; un giorno mio padre decise di ritornare a Pomezia a prendere un poco di roba.
Trovò nel locale un carro armato tedesco nascosto lì per sfuggire alla contraerea alleata. Sia prima che dopo la guerra la vita è stata per tutti dura. Molti di noi erano tentati di rientrare in Romania; ma superammo sempre questi momenti di sconforto.
Nel 1986 siamo ritornati a Cataloi con un pullman organizzato ad Aprilia da Paolo Perotto; siamo stati al cimitero a salutare i nostri antenati e abbiamo visto la strada dove abitavamo, via Italia. Abbiamo trovato le stesse condizioni di vita di quando siamo partiti; la scelta fatta allora si è dunque, a distanza di anni, rivelata felice.
Tutti siamo convinti che allora i nostri padri fecero bene a rientrare in Italia”.