Gli svaghi, se si potevano chiamare tali, erano limitati: si recavano alle funzioni in chiesa o a far visita ad amiche. In campagna i lavori agricoli, in aggiunta alle faccende di casa, non lasciavano molto tempo alle signore. Tutti avevano conservato le loro tradizioni; tanto per citare, nei giorni di festa, sul tavolo dei romagnoli non mancavano mai i tortellini o i cappelletti. Con l’arrivo delle tessere e del razionamento incominciò per molte mamme la caccia a prodotti introvabili e diventarono privilegiati i coloni, in quanto produttori diretti di beni commestibili. La moda, ci ha raccontato qualche vecchia signora, si seguiva per quel poco che si poteva ottenere dalle sarte di famiglia, che cucivano sulle Singer a pedale. Andavano di moda le scarpe di foggia ortopedica con le zeppe; ma, in generale, ci si vestiva in modo semplice e modesto. Più che altro era un continuo adattare e riadattare ai figli più piccoli quello che non andava ai più grandi. Come è ancora abitudine oggi, in concomitanza con la messa, si formava in piazza un gran numero di gruppetti e per i coloni era una delle occasioni per venire in centro. I romagnoli si intrattenevano per lo più davanti allo spiazzo della casa comunale. Gli italo-francesi di lato alla chiesa, i trentini sul piazzale davanti al cinema. Un’altra buona occasione per i coloni per venire a Pomezia era la fiera del bestiame che si teneva ogni prima domenica del mese dietro il mercatino di fronte a largo Catone. In campagna le occasioni di incontro erano soprattutto in particolari periodi come la semina, il raccolto, la trebbiatura. Le famiglie dello stesso gruppo etnico si incontravano con particolare frequenza e si determinavano molti matrimoni fra essi. Si ballava sulle aie dei romagnoli il liscio e si cantavano in coro i motivi in voga come “Pippo non lo sa” del celebre trio Lescano, spesso accompagnati da Primo Versari e dal suo violino. Intanto il lambrusco correva a fiumi e l’aria si impregnava dell’odore del pane e delle salsicce cotte alla brace.
“Il momento più atteso e più bello erano i matrimoni - rammenta Fanny Ranieri, romagnola, sposata con Adelmo Grammatica - si preparava tutto in casa, iniziando anche dieci giorni prima. Venivano ad aiutare vicine, parenti e, per chi aveva la possibilità, anche donne a pagamento. Si preparavano il pane, i dolci, le ciambelle, le pesche romagnole, i biscotti secchi, le crostate. Alla data stabilita si imbandiva nel podere una grande tavolata; gli invitati erano sempre più di cento. Questa tradizione è continuata pure per molto tempo nel dopoguerra. Mi ricordo che al matrimonio di una mia figlia, tanto per fare un esempio, servimmo stracciatella, cappelletti al sugo, bollito con contorni di fagiolini, polli arrostiti, più una vitella intera cucinata in vario modo, per lo più alla griglia. Vino di casa rosso e bianco, dolci fatti in casa. Alla fine si ballò e cantò fino a tardi. Eravamo più di cento: allora noi romagnoli ci si conosceva tutti e si era tutti amici”.
Il cinema Italia
Nel 1940 venne inaugurato il cinema Italia; il suo direttore era lo stesso della sala di Aprilia, Domenico Pucci, e da allora il locale venne meglio conosciuto come cinema Pucci. Il cinema era su due piani, platea e galleria. Sulla destra entrando vi erano tre palchi d’onore.
In totale vi erano 400 posti a sedere; l’operatore era Di Michele, le maschere nei giorni festivi erano il portalettere Giannini e Giovanni Billi. L’Opera Nazionale Combattenti proiettava soprattutto film storici, di Ridolini e d’avventura. Gli attori che facevano sognare erano Amedeo Nazzari, Vittorio De Sica, Doris Duranti e l’adorabile Alida Valli. La domenica la sala era piena; arrivavano famiglie intere da Pratica, Campo Selva, Torvajanica e fra il fumo e l’acre odore delle sigarette Giubek, da una lira a pacchetto, e dei sigari toscani scoppiava il fragoroso applauso per il buono che aveva finalmente ucciso il cattivo. Intorno al cinema era un assieparsi di biciclette e alla fine era d’obbligo la sosta in uno dei locali n vicino; gli uomini a bere un bicchiere di vino allungato con la gazosa e le donne un vermouth o un bicchiere di marsala all’uovo, mentre i figli divoravano bacchette di liquirizia.
Di tanto in tanto per le campagne passavano i pulmini che proiettavano all’aperto, per i rurali, film di propaganda dell’Istituto Luce. Ogni tanto un gruppetto dei più giovani andava a Roma al “Volturno” a vedere la rivista, con l’immancabile sosta in una casa di tolleranza; e al ritorno raccontavano agli attenti e smaniosi curiosi le vertiginose scollature delle ballerine e le incredibili prestazioni al “casino”.